Le migliori Serie Tv e miniserie del decennio

Il decennio è andato e siamo rimasti qui a tirare le somme. Tra i tanti bilanci non potevamo esimerci dal fare quello del mondo della serialità tra serie tv, miniserie e film per la televisione.

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Migliori serie tv del decennio:

One shot One Kill (Miniserie e Stagioni di serie antologiche)

True Detective I (2014, HBO/Sky Atlantic)

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La prima stagione di True Detective, andata in onda su HBO, è stata la serie più acclamata del 2014. L’idea per questo noir di successo proviene dalla mente di Nic Pizzolato che realizza una serie antologica potentissima, in grado di narrare le debolezze dell’animo umano e la banalità del male. La prima parte deve il suo successo anche alla presenza di attori come Woody Harrelson (Marty) e Matthew McConaughey (Rust), qui nei panni di due detective che, nella Louisiana del 1995, si trovavano alle prese con un caso oscuro. Quando questo viene riaperto, nel 2012, sono proprio i due protagonisti a narrare la vicenda, attraverso dei flashback. Oltre alla struttura originale, data dai diversi archi temporali, il valore della serie risiede anche nella qualità e nella resa dei numerosi riferimenti letterari e filosofici.

All’uomo medio Marty, fa da controparte il “filosofo” e visionario Rust, le cui battute pullulano di pessimismo, misantropia e nichilismo, con evidenti richiami al pensiero nietzschiano. Il suo personaggio si ispira a uno degli scrittori più controversi e meno conosciuti della storia della letteratura: Thomas Ligotti, considerato tra i maggiori scrittori horror viventi. Dal suo The Conspiracy Against the Human Race: A Contrivance of Horror, derivano citazioni di Rust come «Siamo creature che non dovrebbero esistere, secondo la legge naturale.» A Lovecraft si deve invece la sua teoria del terrore cosmico. L’«oscurità» tanto citata nei dialoghi, si ritrova anche nelle ambientazioni della selvaggia Louisiana, con i suoi paesaggi desolati; ad esaltarli sono la fotografia e la regia, magistrali e abili nel realizzare uno stile (anche visivo) unico e immediatamente riconoscibile. Pietra miliare che esula dal decennio collocandosi tra i migliori show televisivi di sempre. Uno spartiacque. 

A cura di Valentina Giua

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American Crime Story – Il caso O.J. Simpson (2016, FX/Fox)

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La prima stagione della serie antologica American Crime Story, è un legal drama su uno dei di cronaca nera casi più famosi di sempre: l’omicidio di Nicole Brown Simpson e del cameriere Ronald Lyle Goldman, avvenuto il 12 giugno 1994. Del fatto venne accusato il celebre giocatore di football americano e attore O.J. Simpson. Il processo a O.J. è stato un vero e proprio evento mediatico, coperto da giornali e televisioni con un ritmo martellante. L’idea della serie, come dice già il titolo, è quella di raccontare i casi giudiziari e i crimini più significativi della storia statunitense.

La prima stagione si basa sul libro dell’avvocato Jeffrey Toobin The Run of His Life: The People v. O. J. Simpson e offre una fedelissima trasposizione della realtà, vicina al documentario. L’inserto di immagini di repertorio, è l’espediente narrativo che caratterizza la serie, coadiuvato dalla resa perfetta della messinscena con attori davvero somiglianti e ricostruzioni fedelissime. La verosimiglianza viene abbandonata solo in pochissimi casi, per spiegare le dinamiche interpersonali tra i personaggi, aggiungendo una dose romanzata che rende più godibile la narrazione, mitigando l’approccio documentarista. Punto di forza dello show è proprio il cast: tra i volti più noti riconosciamo quello di Sarah Paulson, nei panni dell’avvocato Marcia Clark; John Travolta, l’avvocato/uomo mediatico Bob Saphiro; e, ovviamente, Cuba Gooding Jr. che regala un O.J. magnetico e carismatico.

La serie è stata sommersa da numerosi premi e altrettante nominations. Nove sono stati gli Emmy portati a casa e due i Golden Globe.

A cura di Valentina Giua

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The Terror I (AMC/Amazon Prime Video)

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Impossibile non inserire la serie che ha aperto le porte a una nuova tipologia di Horror, che esattamente come nell’odierno panorama cinematografico, privandosi degli stilemi classici del genere tenta di analizzare l’orrore da un punto di vista più umano, psicologico e sociale, e conseguentemente oltremodo terrificante.

La storia racconta delle navi gemelle, la Herebus e la Terror, rispettivamente sotto il comando di John Franklin (interpretato da Ciarán Hinds) e Francis Crozier (un gigantesco Jared Harris), inviate nel 1845 in territori inesplorati allo scopo di scovare una rotta commerciale per l’Asia attraverso il passaggio a Nord-Ovest.

Dapprima il terrore verrà percepito dall’esterno attraverso la natura ostile, con le temperature raggelanti che bloccano le due navi nelle enormi distese ghiacciate, oltre a prender forma attraverso la ferocia di una creatura antica simile ad un orso, nota come Tuunbaq. Poi prenderà il sopravvento claustrofobicamente all’interno delle navi,logorando lentamente le menti allucinate dell’equipaggio sfinito e costretto a camminare per centinaia di chilometri negli immensi paesaggi ghiacciati verso l’avamposto più vicino in cerca di aiuto, dove non vive altro che disperazione e abbandono.

Emergeranno così i conflitti interni, le ambizioni e gli intrighi, causati in parte dall’impossibilità di comunicare tra loro in modo trasparente, anche a causa delle barriere sociali e dell’inflessibile gerarchia in cui sono inseriti. Attraverso questa dimensione asfissiante, dove il tempo sembra non passare mai e la natura rimane feroce, impassibile, cieca e sorda innanzi al passaggio dell’uomo, ci viene mostrata e raccontata la solitudine e la memoria, lo smembrarsi del corpo e della mente umana in tutte le sue debolezze, che porterà prima alla disperazione, e poi alla follia collettiva dell’intero equipaggio.

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Un affascinante e terribile racconto che mette insieme valore e caduta, speranze e pregiudizi, umanità e disperazione. Una bellissima ricostruzione ambientale di una natura impervia e inospitale, fra un’algida fotografia, i costumi e le gerarchie interpersonali (dalla subordinazione all’amicizia) ineccepibili.

A cura di Tommaso Parapini

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The Haunting – Hill House (2019, Netflix)

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Liberamente ispirata al romanzo capolavoro di Shirley Jackson, The Hunting of Hill House è una serie che ha avuto il merito di trattare l’horror tornando alle basi dei topoi del genere di appartenenza: da una parte una famiglia disfunzionale, piena di segreti e menzogne, di cose non dette e ferite ancora sanguinanti, dall’altra la presenza di una casa infestata, una costruzione architettonica che osserva e respira e che si presenta sul piccolo schermo come il proverbiale buco nero in grado di divorare la luce e far precipitare il mondo dei protagonisti in un orrore senza fine. Protagonista aggiunta, la sinistra e spettrale dimora di Hill House diventa allora il teatro di stridii e voci che si rincorrono nei corridoi, in un racconto che punta più al suggerire l’inquietudine che al mostrarla apertamente, come nei migliori classici del genere horror, dove il terrore era soprattutto una proiezione dello spettatore, piuttosto che un’imposizione del regista.

Ma la vera dote con cui The Hunting of Hill House si è distinta nel panorama seriale del decennio appena concluso è stata la capacità di non accontentarsi di dipingere le tinte fosche dell’orrore, ma di puntare ad una narrazione che avesse un respiro universale, che fosse in grado di abbracciare uno spettro ampio di condizioni umane, nelle quali lo spettatore poteva riconoscersi. Mike Flanagan, alla regia, non ha mai dimenticato di seguire con la sua macchina da presa i suoi protagonisti, dimostrandoci che la vera paura, il vero terrore da cui dobbiamo guardarci, non è quello che travalica l’ordinario, ma quello che si nasconde nelle pieghe della nostra quotidianità.

A cura di Erika Pomella

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Maniac (2018, Paramount/ Anonymous Content/Netflix)

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Identità, personalità, memoria… La mente umana è un labirinto complesso, un luogo unico e pericoloso, proprio come Maniac. Alla regia di questa serie troviamo Cary Joji Fukunaga, già acclamato per la direzione di True Detective, e ancora una volta capace di dimostrarsi un visionario. Maniac al contrario del thriller diretto in precedenza è luminoso e vibrante, folle e vario, ma non per questo meno valido o d’effetto.

Basato sull’omonima serie televisiva norvegese, Maniac vede come protagonisti Jonah Hill, nel ruolo di Owen Milgrim, uno schizofrenico paranoico e scoraggiato, il cui unico legame personale è una famiglia ricca e corrotta che si prende gioco di lui e se ne approfitta, e Annie Landbergh interpretata da una fantastica Emma Stone, una tossicodipendente perseguitata dalla morte dell’amata sorella. Due personaggi per certi versi simili rinchiusi in un mondo troppo stretto e asfissiante per loro. La tecnologia ha sviluppato quelli che all’epoca erano aspetti reconditi dell’immaginario popolare, robottini che puliscono le strade, pupazzi con cui giocare a scacchi e viaggi nei meandri della nostra mente grazie ad un computer senziente. E ciononostante non è questo l’aspetto più strano di questo universo incollocabile. È un mondo povero umanamente, dove la gente è persino costretta a rivolgersi a dei servizi di amicizia in affitto per avere compagnia. Lo stile visivo di Fukunaga e le grandi interpretazioni dei due protagonisti ci forniscono quell’umanità tanto ricercata nella serie. Non casualmente è attraverso le menti turbate dei due ragazzi che la serie prenderà il volo, entrando fisicamente dentro di esse ed esplorando i loro sinaptici segreti. Sono in questi momenti surreali ambientati nel subconscio di Hill e della Stone che Fukunaga può sbizzarrirsi. Ci si lancia in un turbinio di generi e mondi coadiuvati da una perfetta ironia molto vicina a quella dei fratelli Coen, perfetta nei tempi riuscendo a strapparci un sorriso anche nei momenti bui e più assurdi. E di questo i meriti vanno tutti a Fukunaga e Patrick Sommerville, abilissimi nella scrittura.

In Maniac non troverete visioni semplificate o risposte semplici, verrete trascinati in un caotico e tristemente allegro ballo, grazie a una storia tanto imperfetta quando stupenda, proprio come la nostra mente.

A cura di Vanni Moretti

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Watchmen (2019, HBO/Sky Atlantic)

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Watchmen, probabilmente, è stata la sfida televisiva più rischiosa del decennio. Damon Lindelof — apprezzato autore di The Leftovers e osteggiato scrittore di Lost — è riuscito a superare una prova che all’apparenza sembrava impossibile da superare: dare un sequel al leggendario graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons. Come vi abbiamo diffusamente raccontato nei nostri articoli (che potete trovare in coda al trafiletto), la serie HBO ha sorpreso davvero tutti riuscendo a convincere sia la critica che il pubblico. Con una media di sette milioni di spettatori a episodio e una media voto altissima sui maggiori aggregatori, il lavoro di Lindelof si è rivelato uno dei prodotti televisivi dell’anno e uno dei più importanti del decennio. 

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Watchmen ha dimostrato la maturità artistica della Televisione, che appare ormai talmente ben strutturata da potersi misurare anche con lavori difficili, rischiosi e creativamente complessi. Non è un caso che a raccogliere tale sfida sia stata la major televisiva per eccellenza: HBO. L’emittente più amata al mondo ha ormai fatto del rischio il proprio marchio di fabbrica riuscendo a sfidare il mondo dell’ottava arte non solo in termini artistici, tecnici, economici (GOT) ma anche politici (basti pensare a Chernobyl). 

E proprio la politica e la società contemporanea sono il cuore pulsante di questo sequel, che ha il merito di adattare alcune riflessioni mooroniane al contesto odierno riuscendo anche a costruire ponti con la storia statunitense e internazionale ponendo in atto un affresco lucido dei nostri tempi e di quelli passati. Il piano narrativo acquista potenza da una messa in scena affascinante che fa del realismo la sua caratteristica principale usando accortamente la CGI e omaggiando continuamente le tavole di Gibbons (consulente artistico sul set). Il tutto condito da una meravigliosa colonna sonora di Trent Raznor & Atticus Ross. Non potevamo sperare di meglio.

A cura di Luca Varriale

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Over The Garden Wall (2014, Cartoon Network Studios/Netflix)

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Nonostante sia un prodotto d’animazione, purtroppo abbiamo collocato Over The Garden Wall nella sezione miniserie. Diciamo “purtroppo” poiché sapere che non ci sarà nessun seguito a questo gioiello di Cartoon Network per noi è continua fonte di sofferenza e malinconia.

La miniserie creata da Patrick McHale ha il sapore dei tempi di una volta, delle fiabe antiche. In un mondo in cui la tv e gli show per bambini stanno cambiando notevolmente (traslandosi spesso su piattaforme diverse come You Tube) e la computer grafica la fa da padrone, Over The Garden Wall ci trasporta alla nostra infanzia attraverso la sua grafica classica composta sì da sfondi digitali ma soprattutto da disegni fatti a mano e da un 2D che ha il sapore della nostalgia. Le splendide immagini vengono accompagnate da una storia solo apparentemente semplice, che coinvolge pienamente lo spettatore. Quest’ultimo è immerso in una tavolozza di colori e emozioni. Si ride, si piange, ci si spaventa. Over The Garden Wall è piacevole e inquietante allo stesso tempo, proprio come la vita, e di quest’ultima ne è una grande e meravigliosa metafora. Il mistero che si cela dietro la trama della miniserie è talmente affascinante da aver generato tantissime teorie sul suo significato. Over The Garden Wall non è un semplice show animato ma un’esperienza da vivere in pieno. E mentre sarete rapiti da immagini e narrazione, lasciatevi cullare dalle musiche, vere e proprie protagoniste del racconto e fiore all’occhiello della produzione artistica. 

Paul Rand, famoso direttore artistico e graphic designer americano, una volta disse che “un’opera d’arte si realizza quando forma e contenuto sono indistinguibili. Quando sono in sintesi”. Questo è Over the Garden Wall, una incredibile, equilibrata, opera d’arte; summa di un secolo di arte dell’animazione. Accettate il consiglio: prendetevi una pausa e regalate ai vostri figli (e a voi stessi) una immersione totale in un mondo incantato; incantato come l’infanzia.

A cura di Luca Varriale

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Chernobyl (2019, HBO/Sky Atlantic)

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L’ennesimo colpo messo a segno da HBO, che dopo aver prodotto alcune delle più grandi opere seriali di sempre si è rivolta ad uno dei più delicati e dolorosi soggetti della cronaca moderna. Il disastro della centrale nucleare di Chernobyl del 26 aprile 1986 rivive in questo crudo e struggente epicedio, capace di analizzare con una freddezza quasi documentaristica i passaggi più significativi della tragedia, senza mai rinunciare ad una messa in scena curata in ogni funesto dettaglio. Attraversa così una moltitudine di registri che ne fanno un’opera ricca e articolata nonostante l’estrema concisione.

Chernobyl si muove continuamente dalla tragedia di una Nazione ai drammi personali e particolari dei protagonisti della serie. Una costruzione perfetta che riesce ad accostare alla storia di Lyudmilla Ignatenko, e ai toni funerei della malattia e morte di suo marito, le sfumature più politiche e d’inchiesta di quest’opera. E in un affresco così compatto ed articolato a un tempo, trovano spazio persino ampie digressioni scientifiche di una chiarezza rivelatrice. La sequenza in tribunale in cui Valerij Legàsov (Jared Harris) illustra chirurgicamente la tragedia mantiene alta la tensione drammaturgica pur scendendo nei particolari più precisi e complessi. Ciò a integrare la narrazione più completa e dolente che sia mai stata realizzata della tragedia di Chernobyl, rendendola una tra le serie più importanti del decennio e sicuramente tra le prime del 2019, come sta dimostrando la stagione dei premi.

A cura di Leonardo Di Nino

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