Federico Fellini è tra i registi italiani quello che, forse, ha minor bisogno di presentazioni. Accostato molto spesso a Michelangelo Antonioni per la provenienza dal neorealismo e l’affermarsi nella settima arte italica nei primi anni Cinquanta, Federico Fellini si è contraddistinto come autore di un cinema che era sempre perfettamente consapevole della finzione dello spettacolo, che puntava a rapire lo spettatore non da un punto di vista razionale, ma più prettamente emotivo, guidandolo lungo i sentieri di una dimensione quasi costantemente onirica.
Chi era Federico Fellini
Nato a Rimini il 20 Gennaio 1920 – ricorre quest’anno, infatti, il centenario che viene festeggiato con il ritorno di alcune sue pellicole al cinema – Federico Fellini approda al cinema dopo essersi fatto le ossa come giornalista e vignettista: debutta infatti giovanissimo sulla Domenica del Corriere, dove vengono pubblicati alcune sue vignette. Il seguente trasferimento a Roma serve per permettere al ragazzo, cresciuto in una famiglia umile, di inseguire il sogno di diventare giornalista: è qui che, dando prova del proprio talento come affabulatore, comincerà a stringere quei rapporti d’amicizia che gli apriranno le porte della settima arte.
L’investitura ufficiale, se così vogliamo chiamarla, inizia quando Federico Fellini comincia il suo sodalizio con Rossellini, iniziato proprio con una delle pietre miliari del cinema italiano, Roma Città Aperta. Federico Fellini comincia così a scrivere sceneggiature e copioni per se stesso, ma anche per altri, come Pietro Germi. Per il futuro regista queste sono lezioni importantissime in cui il suo sguardo sempre attento cerca già il profilo di quei personaggi eccentrici e volitivi, che portano con sé l’impronta della fantasmagoria, del sogno, ma anche del grottesco.
I dieci migliori film di Federico Fellini
Proprio in occasione del centenario della nascita di Federico Fellini abbiamo dunque deciso di percorrere insieme i passi della sua carriera, scegliendone i dieci film migliori.
I Vitelloni
Film del 1953, I Vitelloni racconta la storia di cinque giovani che, in qualche modo, rappresentano tutti uno sguardo autobiografico sulla vita provinciale che aveva caratterizzato la gioventù di Fellini, che si evince dalla scelta di spostare il set della trama da Pescara a Rimini.
La caratteristica di questo film – così come di Luci del Varietà e del precedente Lo Sceicco Bianco, con cui forma una sorta di trilogia di intenzioni – è quello di riuscire a cogliere con acuta partecipazione i dettagli di una realtà sociale che è solo apparentemente superficiale e votata solo alla ricerca del piacere, scappando dalle responsabilità.
L’elemento autobiografico del film si evince da due aspetti formali, ma che non bisogna sottovalutare: da una parte la scelta di far interpretare il personaggio di Riccardo da Riccardo Fellini, fratello dal regista. Dall’altra la scelta di doppiare Moraldo, alla fine, quando saluta Guido dal treno. La voce che lo spettatore ascolta è quella dello stesso Fellini, che vuol sottolineare l’elemento legato alla sua esperienza e al momento in cui ha lasciato la sua città natale per Roma.
Le Notti di Cabiria
Con Le Notti di Cabiria Federico Fellini racconta la storia dell’ingenua Cabiria (Giulietta Masina), una donna che decide di inventarsi prostituta perché ha bisogno di denaro per la propria sopravvivenza. Ma Cabiria non ha niente che la accomuna alle sue colleghe: è lo stesso Fellini a insistere su questo aspetto visivo, contrapponendo la protagonista del suo film ad una serie di donne dalle forme ampie, prosperose, che somigliano alle prostitute romane dell’immaginario collettivo che Fellini aveva in mente.
Cabiria, al contrario, è gracile, quasi androgina, con lineamenti fanciulleschi e un taglio di capelli alla maschietta. Cosa assai più importante, però, Cabiria non ha lo spirito né l’animo per svolgere il mestiere più antico del mondo. È ancora pervasa di ingenuità, con le sue poche forze combatte quando si imbatte in un’ingiustizia e, soprattutto, è un’anima disperata alla ricerca dell’amore vero, proprio quel sentimento che di sicuro non può trovare battendo le strade. E sarà proprio questo suo bisogno d’affetto, di compagnia, di amore e accettazione che saranno il motore trainante di tutto il film.
A differenza de I Vitelloni, con Le Notti di Cabiria Federico Fellini lascia cadere il suo intento autobiografico e sembra volersi concentrare maggiormente sull’amara consapevolezza del fallimento, sull’assoluta certezza che l’esistenza non è altro che un vano arrovellarsi alla ricerca di soluzioni che non esistono. Allo stesso tempo, però, proprio attraverso il personaggio di Cabiria, Fellini – con il suo stile sempre più personale e più lontano dai canoni del neorealismo – sembra voler cercare un lume di ottimismo nell’esistenza di personaggi autentici, che sono veri anche nei loro limiti, anche nei loro difetti.
Federico Fellini e il circo: La strada
Un discorso simile a quello di Le Notti di Cabiria lo si può fare anche per uno dei film più amati di Federico Fellini, La Strada. Questo non solo perché troviamo sempre la stessa protagonista, Giulietta Masini, ma perché a tornare è la consapevolezza amara della sconfitta, dell’esistenza del male che sovrasta sempre il bene, intesi non tanto come poli morali, ma come tensioni dell’essere umano. E forse non è un caso se Le Notti di Cabiria, che pure è di tre anni successivo a La strada, finisca col portare il personaggio di Cabiria in una cerchia di personaggi che somiglia moltissimo all’idea di una compagnia circense.
La storia de La Strada è quella Gelsomina, una ragazza ingenua e con un lieve disturbo mentale, che vive un rapporto turbolento e quasi spaventoso con Zampanò (un incredibile Anthony Quinn), un saltimbanco girovago e violento che inserisce Gelsomina all’interno dei suoi numeri per guadagnare qualche soldo in più, che puntualmente andrà a sperperare tra vino e piaceri.
La Strada racconta di un rapporto fatto di abusi e di soverchiante predominio maschile: Gelsomina viene trattata malissimo da Zampanò, ma finisce sempre col tornare da lui, con la paura di non riuscire ad essere niente senza l’ombra del suo padrone su di lei. In qualche modo Federico Fellini riscrive una versione cupa, dilaniante ma anche profondamente poetica dello stereotipo de La Bella e la Bestia e lo fa coi toni strazianti di un racconto fatto per i vinti, di un calvario umano osservato con la partecipazione emotiva dello spettatore, che si lascia guidare dai trucchi circensi di un regista che, seppur con qualche manierismo, riesce a raccontare una favola che trasuda miseria e fallimento. Con La Strada Federico Fellini conosce il successo internazionale: la pellicola riceve il Premio Oscar per il Miglior Film Straniero, dopo aver vinto il Leone d’Argento al Festival di Venezia.
Film del 1963, 8 1/2 è quasi universalmente riconosciuto come il film più compatto e valido della produzione di Federico Fellini, persino più de La Dolce Vita, di cui rappresenta una sorta di seguito ideale. Probabilmente questa idea viene dalla capacità di Fellini di fondere in questo suo progetto tanto la spinta autobiografica quanto la critica personale ma universale alla confusione che caratterizzava la società a lui contemporanea.
Fellini fa dunque di Otto e Mezzo una pellicola che diventa il simbolo di una crisi esistenziale personale. Impossibile non identificare il regista con quello che mette in scena (Marcello Mastroianni), un uomo che non riesce a portare a termine la pellicola a cui sta lavorando, cercando di rimanere a galla mentre si perde tra ricordi e ambizioni.
La cosa interessante, tuttavia, è che questa crisi Fellini la affronta con toni assolutamente non realistici, ricorrendo a sortite fantastiche, quasi allucinatorie che portano ad una composizione formale innovativa e che, pur scendendo molto spesso in quello che somiglia all’autocompiacimento, riescono a conferire allo spettatore l’immagine spettrale ma vividissima di un personaggio narcisista ma smarrito, un uomo problematico, ma sfaccettato.
La nostalgia secondo Federico Fellini: Amarcord
Amarcord è, insieme a La Dolce Vita e a Otto e Mezzo, uno dei titoli con cui Federico Fellini è noto al grande pubblico, quello che non conta solo i cinefili e gli appassionati della settima arte. Il successo di questa pellicola lo si può evincere dal fatto che il titolo stesso, Amarcord, è diventato un vocabolo d’uso comune per identificare l’atto di ricordare qualcosa o qualcuno con un sentimento di profonda nostalgia. In realtà il titolo è la crasi di una frase romagnola, a m’arcord, che significa io mi ricordo.
Ed è proprio il ricordo e la rievocazione del passato ad essere al contro di questa pellicola che, come ambientazione, sembra voler tornare a I Vitelloni, a quella Rimini adolescenziale e ormai perduta. La differenza è che se nel titolo più vecchio Fellini cercava di rivivere il suo passato per poter proseguire nel suo cammino, in Amarcord il passato diventa la terra del ricordo addolcito, smussato, dove la nostalgia e la fantasia riscrivono del tutto i lineamenti di una realtà resa migliore nell’atto del ricordo.
Amarcord si può quasi definire un film ad episodi, pur non essendolo: eppure la sua caratteristica principale è proprio quella di offrire allo spettatore una visione sparsa di aneddoti e situazioni, avventure individuali o collettivi di un borgo che è il cuore dello stesso regista.
Ma Federico Fellini riesce a tenere insieme le fila di tutte queste storie e pur scegliendo di non fare mai ricordo alle strutture canoniche della narrazione standard, riesce a dare ad Amarcord un senso di unità che probabilmente passa anche attraverso una visione disincantata e quasi tragica dell’umanità messa in gioco.