David Lynch: tutti i film dal “peggiore” al migliore
David Lynch è senza dubbio uno dei registi più visionari della storia. Nel giorno del suo compleanno lo omaggiamo stilando la nostra personale classifica
Eraserhead– La mente che cancella (Eraserhead, 1977)
Ed eccoci arrivati al podio con il primo lungometraggio di Lynch, creato quando da studente frequentava ancora l’American Film Institute. Nel corso degli anni ci sono state fornite molteplici letture di Eraserhead. Attraverso questo incubo allucinato considerato dallo stesso Lynch “il mio film più spirituale”, il cinema del regista di Mulholland Drive, Twin Peaks e Inland Empire si delinea già chiaramente. Sequenze oscure e da incubo si sovrappongono ad una realtà allucinata, con scene apparentemente svincolate tra loro che si riuniscono seguendo un percorso mentale ben tratteggiato; atto a svelare non solo il particolare stato d’animo dei suoi protagonisti, ma ancor più quello dello stesso regista.
Henry, il protagonista, è un sognatore, un individuo con la testa fra le nuvole a cui piace scrutare ogni particolare della realtà grigia e monotona in cui vive. Una dimensione monocromatica in cui riversa inconsapevolmente tutte le sue paure e le emozioni più nascoste, trasformando quel mondo in un inferno a cielo aperto. Le persone e i posti che conosce assumono quindi un aspetto innaturale e surreale, dando vita ad una trasfigurazione dettata dalla concezione che il protagonista ha della realtà. Una condanna che lo vuole uguale a tutti gli altri, obbligato a dover resettare la sua mente e la sua personalità in virtù di un’esistenza che non sente sua e che lo priva della sua più grande e desiderata libertà, quella di sognare. Perché In Heaven, everything is fine.
Eraserheadrisulta così l’opera più profondamente intima e segreta di David Lynch, un sogno di avvenimenti oscuri e pericolosi, anche per via dell’elusività e della riluttanza del regista di Missoula nel dare risposte a riguardo; una nota peculiarità di Lynch ma mai così evidente come in questa pellicola.
Mulholland Drive, 2001
Grazie alla divina regia di David Lynch, premiata al Festival di Cannes 2001, Mulholland Drive, una delle vette del cinema del regista, si vanta anche di esser il miglior film del XXI secolo secondo un sondaggio promosso da BBC Culture. David Lynch scrisse la sua sceneggiatura in origine come spin off di I segreti di Twin Peaks (1990).
Il capolavoro del maestro del perturbante e dell’onirico è un’operazione interpretativa che attua nello spettatore il bisogno di scovare ciò che è insito, celato. In seguito ad un incidente sulla Mulholland Drive di Hollywood, Rita perde la memoria. Betty, un’aspirante attrice, cerca di aiutarla a ritrovare la sua identità. Un’opera surrealista e trascendentale che, attraverso la psicoanalisi, racchiude in sé tutta la potenza enigmatica della Settima Arte.
Il film si mostra fin da subito come un’operazione interpretativa: la composizione narrativa è una mancanza, un’assenza che noi spettatori interpreti dobbiamo mutare in senso. Lynch conduce la sua giovane Persefone (Naomi Watts) in una discesa negli inferi dell’inconscio e della mente, dove vediamo persone diventare personaggi, sogni diventare incubi, frasi diventare sospiri. Il film penetra man mano nelle pieghe di una Los Angeles al solito foriera di cattivi presagi e di personaggi grotteschi e ambigui, dove il sentimento non corrisposto dà vita ad un magma di destabilizzanti distorsioni della realtà che si susseguono senza un’apparente senso logico o continuità, proprio come se fossimo in un sogno. E il risveglio è terribile, tanto da farci precipitare in un nuovo incubo. Un’esperienza di cinema obbligatoria.
Inland Empire – L’impero della mente (Inland Empire, 2006)
Infine eccoci arrivati all’opera che, al 2020, rimane il suo ultimo film (se non si considera la terza serie di Twin Peaks); un capolavoro astratto, silenzioso, che nasconde in profondità delle realtà celate, la cui cripticità dei contenuti ne fa il film più complesso, anche a livello interpretativo, di DavidLynch, che qui estremizza tutta la sua arte.
Nella prima mezz’ora di Inland Empire ci si illude di poter afferrare una qualsiasi trama lineare, con l’attrice Nikki Grace (Laura Dern) che vuole conquistare il ruolo di Susan nel film On High in Blue Tomorrows. Durante le riprese l’identità di Nikki si trasforma nel suo alter ego simulato fino a non riuscire più a distinguersi. Entrambe precipitano in un oscuro legame sentimentale con l’attore protagonista, Devon, e con il suo personaggio, Billy. Da lì in poi molteplici storie si intrecciano tra di loro nell’impero della mente, la (meta) attrice vive ed è vissuta da numerosi universi lontani e distinti, che si compenetrano in strade perdute dove vorticano realtà, (meta) cinema e inconscio, presente e passato.
Una specie di ritorno alle origini, all’utilizzo di quei elementi complessi e disturbanti che componevano il film d’esordio, Eraserhead, una delle opere più sperimentali del regista. Ad oggi, personalmente è impossibile non ritenerlo un capolavoro come pochi, in grado di scuotere, stupire e porre nello spettatore interrogativi e suggestive interpretazioni inerenti il suo svolgimento. Un’opera che sta al di qua della parola e al di là del pensiero. La mente è messa alla prova, ed è nella mente la soluzione di ogni enigma. Difficile non accogliere Inland Empire, assieme alla terza stagione di Twin Peaks, come un testamento d’autore.