Nowhere Blues, recensione del disco di King of The Opera

Un concept magnetico e ispirato

Nowhere Blues
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Esce oggi Nowhere blues, nuovo lavoro di King of The Opera

Dopo anni di silenzio Alberto Mariotti pubblica un nuovo lavoro: dall’ultimo disco del suo progetto King of The Opera sono passati quattro anni. L’ultimo album di cover risale infatti al 2016 ed è direttamente da quest’ultimo che Mariotti riprende le fila del suo discorso musicale. Riallacciandosi alla vena blues che attraversava la raccolta Pangos Sessions, Mariotti vuole suonare il suo omaggio più intimo a personale alla storia di quei bluesman afro-americani del primo dopo guerra che furono matrice e fautori di uno stile e di un linguaggio. Ma se negli intenti King of The Opera propone un disco che vuole guardare attraverso il blues anche alle proprie origini artistiche, ben differenti sono gli orizzonti sonori a cui perviene.

L’omaggio non è manieristico, ma estremamente concettuale. Mariotti si rivolge a quei bluesman che dedicavano le loro tristi intonazioni a città e luoghi verso i quali erano debitori. Di questi luoghi in Nowhere Blues, come suggerisce il titolo, rimangono tracce sparute, deserti sonori e vaghe rimembranze. Di queste città non rimangono che scene, places, spogliate della loro identità e ridotte a panorami, a non-luoghi.

L’impronta del concept album è quindi molto forte, ed incide in maniera determinante la forma. Le tracce di Nowhere Blues sono indicatori all’interno di un continuum magmatico e indefinito, dove non c’è alcuna soluzione di continuità tra un brano e l’altro. Un ampio poema musicale, estremamente evocativo nelle atmosfere e ad un tempo ragionato ed elegante nelle tessiture sonore e nell’assemblaggio.

Ma più che ad un poema sinfonico, Nowhere Blues somiglia ad un poema elettronico

Se infatti il presupposto era il blues, Mariotti sembra invece firmarsi quale figlio illegittimo di Edgar Varèse e mostra al pubblico il suo personalissimo poème électronique . Così il mondo dei sequencer e dei campionamenti diventa la chiave di accesso alla sfera interiore del musicista, che slegandosi dalla concezione più squisitamente strumentale della sua poetica crea un universo sonoro veramente unico.

Nowhere Blues

Come da lui stesso dichiarato, infatti, i brani di Nowhere Blues furono concepiti sulla chitarra, da sempre strumento prediletto di Mariotti. Lavorando sugli arrangiamenti è stato capace di astrarre ed estrarre le identità musicali delle sue idee, proiettandole in una prospettiva in cui il punto di fuga si perde all’infinito. Un’opera che richiama, specie nella sezione centrale del disco, le tinte misteriche degli ultimi lavori di Thom Yorke: il frontman dei Radiohead in Suspiria e Anima è giunto alla forma più matura e compiuta di una ricerca sonora iniziata con The Eraser.

E di Yorke non ha solo il gusto per l’elettronica, ma anche l’impianto fortemente minimalista che ne caratterizza la composizione. Elementi minimi, piccoli sintagmi musicali riescono ad essere l’ingranaggio dei congegni sonori di Nowhere Blues. Così per le ritmiche insistenti di tutto l’album, per il campione di voce di I’m in love o per le strutture armoniche di Never Seen an Angel: forme infinitesime capaci di connotare le autonome identità dei brani all’interno del discorso complessivo del disco.

E attraverso queste strutture Mariotti non vuole ricomporre, per sovrapposizione, un linguaggio musicale di cui permane sempre lo spettro. Al contrario il musicista rimane impressionistico nell’evocazione di quei paesaggi tanto cari ai bluesman. Di quei Places che giungono postremi nell’ultima traccia, l’unica separata dal continuum ipnotico di Nowhere Blues. Un commiato in postilla da quel dovunque che is the one I can’t hold on to, wherever I am.

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