Poppy è un nome unico nel panorama musicale, e zitta zitta sta conquistando tutta la scena
Il terzo album ufficiale di Poppy, alias Moriah Rose Pereira, si intitola I Disagree. E già dal titolo, fidatevi, dice tutto. Non nella maniera banale che si potrebbe pensare, però: la parodia e l’auto-parodia, già ampiamente sperimentate da Poppy nella sua immagine dipopstar volutamente esasperata, qui raggiungono livelli ancora più alti. Assieme ai suoi collaboratori fissi, Chris Greatti e Zakk Cervini, Poppy cuce su di sé una figura provocatoria proprio perché esagerata in tutto, e perché allo stesso tempo eternamente indecisa.
La mescolanza dei generi in questo terzo album dell’artista sfiora la schizofrenia acuta: le tracce passano, con una incostanza degna dei Kero Kero Bonito, dal pop più zuccheroso al nu metal stile anni ’00, dall’elettronica post-techno al rap improvvisato, e di nuovo indietro ad un pop che, per come ne emerge, non può essere preso sul serio. Anche l’alternanza tra verse e refrain, così come ogni struttura costante, viene piacevolmente smontata, mettendo alla prova tanto l’ascoltatore pop quanto quello metal.
I Disagree rifiuta allora non semplicemente le convenzioni del “pop” o della musica di mainstream, ma si spinge oltre: ciò con cui Poppy non appare essere d’accordo sono proprio i confini tra i generi musicali e le espressioni artistiche, confini oramai in gran parte inutili e anacronistici. In un album breve ed estremamente ispirato, Poppy apre un importante discorso su quella che potrà essere la musica degli anni ’20: in una scena nella quale le popstar faranno metal, e i gruppi metal (come i Bring Me the Horizon) faranno pop, avrà ancora senso una tale distinzione tra i generi?
Non finisce qui, perché Poppy trascina la sua volontà di sovversione dalla musica ai visuals, passando per videoclip altamente d’impatto e copertine memorabili. Quella di I Disagree, per esempio, richiama l’estetica dei gruppi black metal norvegesi di inizio anni ’90. Dall’ascolto di questo album è importante capire che quella di Poppy non è una trasformazione, o una transizione. Trattasi piuttosto di apertura, un tipo di apertura che sta avvenendo ovunque nella musica contemporanea, e che spalanca possibilità davvero infinite. Il risultato, tanto per dire, può essere un disco eccezionale, originale e ispirato come questo.
Le canzoni possiedono tutte quante una forza unica. Da BLOODMONEY a Fill the Crown, da Bite Your Teeth a Anything Like Me, passando per la title track e fino a quella che è forse la migliore del disco, Sit / Stay. Non c’è niente di “normale”, nemmeno nell’anormalità degli interventi metal, che una volta giunti a turbare convenientemente l’ascoltatore, si quietano presto per lasciarlo spaesato come prima. Nessuna canzone, come si diceva, segue una struttura precisa, e neppure comprende un unico genere dall’inizio alla fine. Le composizioni si rivelano perciò, al di là della volontà di provocazione, sempre belle complesse e ricercate.
C’è spazio per altro ancora, oltre a metal e pop: come il folk psichedelico e astratto di Sick of the Sun, o la pretesa ballad indie pop di Nothing I Need. Insomma, ce n’è quanto basta per consentirci di affermare che, mainstream o no, pop o no, Poppy sarà sicuramente tra le protagoniste musicali degli anni ’20. O perlomeno, del 2020. Questo suo terzo album, per chi ha le orecchie aperte (e anche la mente aperta) ha già fatto storia. Una artista da tenere d’occhio, da interpretare, da seguire da vicino e da non sottovalutare assolutamente. Non cascate nell’errore di cercare una categoria per definirla: è proprio quello che Poppy vuole.