Nel 1992 Anthony Hopkins vinse l'Oscar come miglior attore per la brevissima apparizione in "Il silenzio degli innocenti". 16 minuti grazie a cui poté stringere a sé l'ambita statuetta, ma soprattutto per i quali non verrà mai dimenticato dal suo pubblico. Scopriamo perché.
La storia Hollywood è piena di leggendari attori mai consacrati ai premi Oscar. Dal conosciuto caso di Jim Carrey, il quale abbandonò le luci della ribalta dopo la mancata vittoria con Truman Show (1998), ad un altro mito degli anni ’90, Kevin Kostner. La lista è davvero lunga e ripercorre la storia del cinema sin alla fondazione dell’ambito premio. Accanto a questa però se ne stende una ancor più sorprendente. Quella degli attori e delle attrici che strinsero la statuetta d’oro grazie a brevissime apparizioni. Interpretazioni di pochi minuti, ma talmente pregnanti da meritare il plauso dell’Academy. Il caso più celebre è forse quello di Anthony Hopkins e l’Oscar guadagnato con la fugace apparizione ne Il Silenzio degli Innocenti(1991). 16 minuti in cui l’espressione calma, l’aspetto distinto e la voce pacata dell’attore conquistarono pubblico e critica, rendendolo degno del più riconosciuto premio cinematografico durante i Premi Oscar 1992.
Come spesso accade, anche all’epoca l’oscar all’attore fu discusso o sostenuto. Certo, accanto ad Hopkins speravano attori del calibro di Robert De Niro, nominato quell’anno per The Fisher Kings, e Warren Beatty, presente per Bugsy. Per non parlare di Robin Williams, il quale vincerà il proprio unico Oscar qualche anno dopo, nel 1998, per Will Hunting. Tra polemiche e applausi (tipiche del giornalismo legato all’evento) fu però Hopkins a prevalere, grazie ad un film che vinse altre 4 statuette. Tra cui quella di miglior Film. La più particolare resta certamente quella consegnata all’attore gallese. Cosa fu dunque a rendere così strepitosa la breve interpretazione di Anthony Hopkins da legittimare l’Oscar?
Un’interpretazione tra squilibrio e lucidità
Ne Il silenzio degli innocenti Anthony Hopkins interpreta Hannibal Lecter. Ex psichiatra detenuto in un manicomio per aver ucciso e divorato alcuni pazienti. Non è lui però il protagonista di questa storia, o per lo meno non è lui ad essere oggetto dell’apparente evoluzione narrativa che si dipana lungo la pellicola. Il centro è infatti la giovane agente Clarice Starling (Jodie Foster), incaricata di interrogare il pericoloso assassino per poter capire al meglio la mente criminale e così riuscire ad arrestare il ricercato “Buffalo Bill”.
Il rapporto tra i due è dunque il luogo in cui Il silenzio degli innocenti, diretto con perizia e intelligenza da Jonathan Demme, situa le proprie peculiarità tematiche. È dunque nello specchiarsi del volto del mostro cannibale nella giovane, e nella risposta a questa identificazione, che la recitazione dei due attori si inclina a favore delle oscurità dell’animo umano.Anthony Hopkins piega lo psicopatico che interpreta ad uno sguardo perverso, eccezionalmente seducente e gelido nell’accostamento al sorriso ormai asceso a simbolo di follia. Il gioco tra lucidità e squilibrio è quello in cui la voce dell’attore si immerge di più, mettendo in difficoltà la giovane agente e ponendo in imbarazzo il pubblico.
Uno sguardo che impressiona
L’intero dialogo scardina infatti i preconcetti difensivi innalzati dallo spettatore. Qui l’immedesimazione è tutta nel personaggio di Jodie Foster, la quale nel primo incontro con l’assassino viene sorpresa da un’inaspettata gentilezza. Anthony Hopkins è abilissimo nel virare continuamente su tonalità ironiche della voce, mentre piano piano si inserisce una fascinazione per l’agente. Se lo sguardo del cannibale possa essere amore o semplice fantasticheria per quello che è ai suoi occhi semplice carne e sangue, è proprio il dubbio che instilla questa sceneggiatura (adattamento del romanzo di Thomas Harris) ben scritta e splendidamente interpretata.
Attraverso il vetro anti proiettili il dialogo prende tutte le forme che la Coppia (in senso assoluto) può archetipicamente interpretare. Sino alla riduzione di queste nell’elementare polarizzazione: osservatore e osservato. Ossia il fondamento teorico dell’arte cinematografica. Presto però diviene difficile capire quale sia l’esaminato e l’esaminatore e quando Hopkins guarda in camera (in una delle inquadratura divenuta simbolo del cinema contemporaneo) è lo spettatore a sentirsi scoperto nell’atto di guardare. Anthony Hopkins entra così in sala e conquista le menti del pubblico. Anche quando Lecter scompare dallo schermo tutto sembra richiamare (o ricordare) lui. La sua assenza è la sua più corretta messa in scena, perché è la trasformazione del corpo (e dello sguardo) in ossessione pura.
Il dramma si lega così indissolubilmente al personaggio che meno appare e più è presente. Sintetizzato nello sguardo gelido ed eloquente di un attore che incarna l’intero senso del film.
Ecco perché se è vero che l’Oscar ad Anthony Hopkins è il risultato di “soli” 16 minuti di interpretazione, è anche vero che il suo dilatarsi lungo l’intera pellicola (ed oltre la visione di questa, attraverso la mente dello spettatore) risulta come una vera e propria presenza costante. Come se Hopkins non abbandonasse mai davvero lo schermo, e in un certo senso fosse il film stesso. 16 minuti per vincere un Oscar, ma anche per restare per sempre nella mente del proprio pubblico.