Watchmen è un miracolo. Uscire dalle morse di un capolavoro e librarsi in aria splendendo di luce propria pur traendo continuamente energia dall’opera madre, somigliandole e allo stesso tempo discostandosene, è un prodigio che solo i figli più ispirati riescono a mettere in atto.
Watchmen: la Tv al servizio della Nona Arte
Damon Lindelof (Lost, The Leftovers) e HBO danno vita a un processo artistico difficile, quasi impossibile, e ci donano uno show che definire sbalorditivo è estremamente riduttivo. Forse non lo sarà per tutti, ma per i fan del graphic novel di Alan Moore, Watchmen è sicuramente la serie dell’anno, la sorpresa televisiva più dolce del 2019.
“Non puoi guarire sotto una maschera. Alle ferite serve aria.”
Muoversi in Watchmen è come aggirarsi in un museo di meraviglie: dalla scrittura alle scelte stilistiche passando per una resa tecnica piena di stupefacenti trovate che arricchiscono notevolmente l’arte del piccolo schermo, ormai sempre più orientata verso il livello della settima arte. Il fattore principale, però, in cui si ritrova la grandezza della serie va individuato nel cuore filosofico. Quest’ultimo resta fedele a quello che pulsa nell’opera originale: il dolorante e incerto proseguire di un mondo eccentrico eppure profondamente ordinario, che cerca in una maschera la possibilità di imbrigliare e canalizzare il dolore attraverso una lotta asfissiante contro l’incertezza della fine e gli affanni e le ingiustizie del presente.
Maschere che cadono sotto i colpi di una realtà che manda in frantumi costumi colorati e folli ambizioni per mostrarci l’immagine reale di un mondo terribile che non ha bisogno di eroi. Un mondo che anela l’intervento di un Dio, invocato da sempre e presentatosi all’improvviso in una luce blu. Ma quando anche quest’ultimo viene sopraffatto dall’ineluttabilità di un mondo perso in se stesso e nella propria rabbia, cedendo il passo e il posto all’indifferenza e ad un falso profeta, quel mondo cade in uno stato di paura perenne. Nonostante un pace trovata, ne si paga il prezzo sostituendo la vecchia paura ad una nuova più scioccante e più profonda:
“Perché un uomo non ha che la sua eredità” e l’eredità di Ozymandias è diffidenza, odio, paura e fragile ordine.
Il sipario di Watchmen si apre qui, su questo mondo appena descritto mostrandoci il risultato di trent’anni di shock post traumatico. Dove l’ordine è in realtà caos, dove ognuno è marionetta e nessuno burattinaio. Neppure Dio.
Per introdurci in questo viaggio la serie non ha bisogno di opening o introduzioni di sorta, sia narrativamente che stilisticamente. Sul piano narrativo poiché la serie non ha nessuna intenzione di spiegare ai neofiti ciò che stanno affrontando: o conosci il mondo di Watchmen oppure recuperi i pezzi mancanti del puzzle.
Stilisticamente, invece, pone il titolo in modo che sia parte integrante della scena di apertura. In questo modo, nel corso della serie, abbiamo una macchina da scrivere che batte il logo per poi continuare il suo lavoro al servizio dell’episodio; vediamo la scritta Watchmen proiettata su uno schermo di inizi anni ’20; digitata su un telefono o composta dal fumo di una sigaretta appena accesa. L’opening, quindi, è figlio della scena di apertura e al servizio di questa. Un’ immersione immediata nei fatti raccontati. E quando Watchmen espone i fatti, li considera prima di tutto resoconti della Storia, quella vera, di cui, come nell’opera originale, non può fare a meno.
La finzione è al servizio di un processo dialogico che fa del realismo il suo baluardo, inserendo le proprie fantasie in un contesto storico accurato e profondamente e indissolubilmente legato al mondo che lo spettatore abita. Questo mondo. Il nostro mondo.
Watchmen: la messa in scena di un piccolo capolavoro
Il tutto si sposa alla perfezione con una narrazione avvincente, un thriller pieno di colpi di scena che grazie alla propria solidità narrativa permette agli autori di divagare su più personaggi e argomenti. Il risultato finale è una storia finemente conclusa con pochi (e minori) quesiti evasi e che non necessita per forza di un seguito, restando scolpita solidamente in una soddisfacente struttura auto conclusiva.
Fiore all’occhiello della serie, inoltre, è la resa tecnica e stilistica. La prima beneficia di una regia ispirata che ci dona virtuosismi mai intaccati dalla necessaria presenza di una centellinata CGI, basti pensare alla meravigliosa carrellata indietro (quinta puntata) che termina con una panoramica di una New York in ginocchio e che contiene in sé l’omaggio più spettacolare ed evidente all’opera di Moore e Gibbons. Oppure possiamo portare ad esempio la messa in opera della sesta puntata in cui i ricordi atti a presentarci un episodio di retro continuity sono costruiti in modo originale: lo scivolare da un momento del passato all’altro riserva sempre qualche suggestiva trovata di montaggio o stilistica. Ripercorrere la vita di alcuni protagonisti in un susseguirsi di immagini in bianco e nero sporcate da vivaci colori pone lo spettatore in uno stato di ipnosi grazie a un ritmo serrato e mai confusionario.
L’espediente è portato alla perfezione nel capitolo capolavoro: l’ottava puntata. Il racconto tipico del Dr. Manhattan, caratterizzato da una sospensione lineare del tempo in cui tutto accade simultaneamente, è un lavoro di montaggio e di regia che difficilmente ritroviamo nel mondo degli show televisivi, nonostante la qualità di questi, come detto, sia in arrestabile ascesa. L’episodio è perfettamente composto, scivola da una situazione all’altra con una semplicità tale da competere onorevolmente con le vignette, sicuramente più adatte e semplici da usare per un’operazione narrativa di questo tipo. L’ottavo episodio è estremamente equilibrato nella sua complessità tanto da spingere gli autori a spostare una scena necessaria alla trama dopo i titoli di coda per non incappare in una rottura di ritmo che avrebbe compromesso il risultato finale.
Prima di procedere alla resa stilistica va fatta una menzione speciale alle ottime prove attoriali, su tutte quelle di Jeremy Irons e Regina King, veri e propri motori dello show. Inoltre, da ascoltare e riascoltare la splendida colonna sonora. Magnifiche sia le opere non originali, sempre calzanti ed evocative, sia le composizioni di Trent Reznor & Atticus Ross, che tra rivisitazioni di pezzi storici e musiche originali donano alla serie una incredibile soundtrack.
Stilisticamente, invece, bisogna assolutamente riconoscere agli autori la profonda affezione nei confronti del capolavoro a cui si ispirano. Nonostante Lindelof, dopo aver inviato una lettera a Moore, abbia ricevuto come risposta “lasciami in pace”, ha comunque tenuto, tenacemente e brillantemente, seppur orfano dell’aiuto del creatore, come punto di riferimento il lavoro del grande autore britannico. Coadiuvato, dal punto di vista prettamente visivo, dalla presenza sul set del disegnatore Dave Gibbons.
Gli episodi sono una giostra di citazioni e rimandi, evidenti e sottili, palesi e nascosti. Ogni caratteristica del graphic novel è adottata: i piccoli parallelismi col mondo reale e le curate modifiche distopiche alla realtà che ci circonda (Pale Hore/ Schindler’s List, Ronald Reagan/Robert Redford), la cultura pop, i riferimenti letterari e via discorrendo. Inoltre, non sono stati ignorati i fili tessuti dai prequel, vale a dire Before Watchmen – la cui pubblicazione è stata causa del litigio tra Moore e Gibbons – di cui troviamo numerosi riferimenti posti al servizio della trama. Watchmen di Damon Lindelof è un degno e fedele sequel del mondo a cui fa riferimento, molto di più del seguito cartaceo proposto dalla DC negli ultimi mesi: Doomsday Clock.
Possiamo concludere, quindi, con serena certezza che Watchmen ha assolto brillantemente al suo compito. La serie ha cullato e coccolato l’amore dei fan pur mantenendo una storia originale e marcatamente contemporanea e ha anche il merito, probabilmente, di aver avvicinato nuovo pubblico alla storia dei giustizieri mascherati di Moore e Gibbons (già in stampa le nuove edizioni del graphic novel con il logo HBO).
Il Finale
ATTENZIONE SPOILER!
L’ultimo episodio appare un naturale approdo, una inevitabile conclusione figlia dell’approccio psicologico di Watchmen. Chi anela ad essere un Dio (o, in piccolo, un Eroe) può solo rimanere schiacciato dalla propria hybris; chi invece si ritrova suo malgrado ad esserlo ha due scelte: rimanere “ingabbiato” come Manhattan da una coinvolgimento eccessivo o un altrettanta indifferenza oppure…oppure chissà, si prova a camminare sull’acqua e vedere che succede… tanto cosa può accadere? Il mondo finirà? “Sì. Lo ripetono di continuo, eppure non avviene mai”.