Discussa, odiata, amata. L’arte di Marina Abramovic non si è mai prestata a mezzi giudizi giacché questa si trova nella sfera dell’arte contemporanea. Più precisamente nelle arti performative, dove l’artista dona spirito ma soprattutto corpo all’arte. Come lei, troviamo molti altri performer che iniziarono la loro arte nel bel mezzo degli anni della contestazione. Gina Pane, Vali Export, James Burden. Artisti che mettevano a disposizione il loro corpo in performance il cui scopo era principalmente uno: causare uno shock, decostruendo il concetto stesso di arte performativa. Il che non sempre deve necessariamente avere un’accezione negativa. Come nel caso specifico della performance chiamata The Artist Is Present, 2010, New York.
In questo caso, il concetto di shock viene preso e donato a chiunque voglia partecipare a questa performance. Nello spazio del MoMA di New York, Marina Abramovic rimase seduta per 736 ore, pronta a condividere sguardi e silenzi con chiunque volesse sedersi e rimanere lì a fissare l’artista. Le reazioni del pubblico sono tra le più disparate.
Chi rimase in silenzio, chi scoppiò a ridere e chi in lacrime. Ma lei, la Abramovic, sempre impassibile. Finché non arrivò a sedersi su quella sedia di fronte a lei proprio Ulay, il suo grande amore nonché collega di quasi un’intera vita artistica. Prima però, un passo indietro. È doveroso raccontare la loro storia per capire realmente l’essenza ed il legame di queste due persone, ancor prima che personalità artistiche.
Siamo nel 1975, ad Innsbruck. Marina Abramovic mette in mostra una sua performance, Thomas Lips. Ed è qui che conosce Ulay. I due si innamoreranno e staranno insieme per ben 12 anni, diventando anche partner sul lato artistico. I due presenteranno insieme alla Biennale di Venezia Relation in Space nel ’76 e continueranno con molte altre performance come Imponderabilia e soprattutto Rest Energy. Qui, la vita di Marina Abramovic si trovava completamente nelle mani di Ulay. In perfetta simbiosi, lei reggeva un arco che le punta una freccia dritta verso il suo cuore, sorretta proprio da Ulay stesso. Un minimo errore e la freccia avrebbe ucciso la Abramovic.
Passano gli anni e sebbene un largo successo, il loro rapporto inizia ad incrinarsi. La fine verrà sancita sulla Grande Muraglia Cinese. Partendo dai lati opposti, i due si incontrarono precisamente a metà strada per un ultimo saluto. Inizialmente, la performance prevedeva il matrimonio. Tuttavia, per problemi burocratici, The Lovers, questo il titolo, subì molti ritardi. Al punto che quando arrivò l’autorizzazione, ci fu questo drastico cambiamento. Un addio durato circa trent’anni, fino al giorno in cui i due si rincontrarono a New York.
La ripresa del suo arrivo è sicuramente uno dei momenti più toccanti. Al punto che la stessa Marina Abramovic, dopo circa tre mesi di assoluto silenzio ed inespressività, arriverà a rompere le sue stesse regole, porgendo le mani ad Ulay e scoppiando un pianto liberatorio. Insieme ad un iniziale e tenero sorriso.
Tornando al discorso circa lo shock delle arti perfomative e della sua decostruzione, qui ci troviamo di fronte ad un esempio differente rispetto a molte altre performance ma che porta al medesimo risultato. Potrebbe tornare utile in tal senso, andare a vedersi Ritmo 0, avvenuta a Napoli nel 1974, così come molte altre della stessa artista o di quelli sopracitati.
Se nelle altre assistiamo ad un’esplorazione dei limiti del proprio corpo, nonché dell’etica della società, qui il colpo al cuore arriva per ben due volte. In primis, quando il pubblico soggetto osservante diventa oggetto osservato dal gelido sguardo dalla stessa artista. In secundis, quando la situazione subisce un ennesimo ribaltamento e quello che doveva essere un vero e proprio gioco di ruoli, diventa pura intimità. Un’intimità che scalda ogni cuore, anche il più freddo. Vedere per credere.