Uno dei film più attesi di una annata straordinaria, il capolavoro in una stagione di grandissimi film: The Irishman è finalmente disponibile alla visione. Dal 27 novembre l’evento cinematografico più discusso è su Netflix, il mecenate dietro la titanica fatica di Martin Scorsese. Così tutti coloro che non hanno avuto la fortuna di vederlo in sala finalmente possono saziare la spasmodica attesa, ricompensata da un’opera gigantografica in ogni dimensione in cui poteva esserlo.
The Irishman è sulla bocca di tutti da tempo ormai, e la polemica che ha visto protagonista Scorsese ha espanso l’alone leggendario che copriva il film già a mesi dall’uscita. Il regista però ha fornito una lezione di cinema memorabile, che ha messo in secondo piano qualsiasi chiacchiera e fraintendimento per far parlare la Settima Arte nella sua essenza più pura. E su di un film di tale pregio si potrebbe parlare davvero a lungo, finendo sempre per non essere esaustivi.
Per questo, dopo averlo recensito in anteprima dalla Festa del Cinema di Roma, ci vogliamo concentrare sul finale, nel quale si condensano compiutamente i significati più profondi di questa maestosa opera epica. Leggere l’ultimo atto significa misurarsi con il lato più struggente e commovente di The Irishman.
The Irishman, un finale a regola d’arte
You don’t know how fast time goes by until you get there.
Come mai prima nella filmografia di Scorsese, che comunque si è sempre espresso su lunghe durate, abbiamo assistito ad una moltiplicazione così ipertrofica delle dimensioni temporali. Non solo nella durata elefantiaca del film, ma anche nella gestione dei livelli narrativi: la scena in cui Frank Sheeran fucila i due soldati, ad esempio, è il quarto grado del racconto. Ed è proprio Frank Sheeran-Robert De Niro il punto di vista in cui converge tutto questo enorme dramma. Attraverso questo narratore autodiegetico la Storia si fa Memoria: le vicende e lo sfondo della caratterizzazione storica vengono rielaborate come in una grande rapsodia.
Per dirla con Bergson, attraverso il racconto di Frank Sheeran sembra rivivere la dicotomia tra tempo esteriore e tempo interiore. La Storia-Materia, per l’appunto, nella sua oggettività, e la sua narrazione estremamente personale, soggettivizzata.
Così più di tre ore di racconto ci costringono ad entrare negli occhi di Frank Sheeran, nei suoi ricordi. Ciò che ne risulta è un’opera totalmente anti-lirica, che rinuncia a qualsiasi spettacolarizzazione della violenza gangster, quasi per costringere lo spettatore a sperimentare personalmente la lentezza, l’immobilità, la senescenza. Riesce in questo modo a creare quell’empatia indispensabile a rendere gli ultimi 30 minuti così poetici e intensi nei loro silenzi sovrumani: il desertico epilogo di un’epopea rocambolesca, la conclusione in dissolvenza della New Hollywood.
The Irishman presenta uno dei ruoli femminili più importanti nella filmografia di Scorsese.
Come tanti altri registi, nemmeno Scorsese è riuscito negli anni a sfuggire alla polemica sull’assenza di protagonisti femminili. Il personaggio di Peggy, in The Irishman, di certo non brilla per protagonismo, ma è la chiave di lettura dei residui di umanità nel protagonista. Lei cresce insieme al racconto, è il segno davvero tangibile del continuum del tempo, continuamente negato dai salti temporali e dalla CGI.
Una figlia sempre più grande, sempre più silenziosa, sempre più distante. Così nel finale la sua assenza totale è il reale scotto che il protagonista è costretto a pagare nei confronti delle sue responsabilità. Peggy incarna addirittura il confronto tra Jimmy Hoffa e Russell Buffalino: innamorata del vitalistico zio Jimmy, totalmente diffidente nei confronti di Russell.
Peggy è perfettamente consapevole di ciò che il padre ha fatto ad Hoffa, e il suo silenzio questa volta non concede alcun margine di perdono. Il distacco totale tra padre e figlia costringe Frank a misurarsi con i suoi sensi di colpa, con la solitudine degli ultimi rintocchi del suo tempo.
Don’t shut the door all the way, I don’t like it. Just…leave it open a little bit.
Si arriva così a quell’ultima folgorante inquadratura. Il lunghissimo excursus di Frank Sheeran ci riporta circolarmente nella clinica in cui il film si apre con lo splendido piano-sequenza introduttivo. Un cerchio costretto a chiudersi proprio in quel modo, necessitato dagli eventi. Le ultime sequenze ci mostrano il protagonista sempre più conscio della fine imminente. Il silenzio è sempre più assordante, la fotografia sempre più livida, a rendere questo segmento di The Irishman una tra le più struggenti rappresentazioni della morte.
Il confronto con una giovane infermiera che non sa chi siano Frank Sheeran e Jimmi Hoffa sottolinea nuovamente il protagonismo del tempo, del suo scorrere. La presenza del prete connota in senso spirituale queste riflessioni. Scorsese rimette al centro il rapporto tra colpa e peccato al limitare della vita di Frank Sheeran, al volgere di un film che sembra davvero il suo slancio artistico definitivo.
Le ultime parole pronunciate da Frank Sheeran sono il residuo malinconico degli albori dell’amicizia con Hoffa, anche lui spaventato dall’oscurità di una porta chiusa. Sono però, soprattutto, l’anelito finale di un uomo che pur accettando l’incombere di un epilogo, cerca di allontanare la naturale paura del buio definitivo.
Ed in questo momento, in un certo senso, il regista si sostituisce al protagonista. All’amico di sempre, con cui ha condiviso la gioventù, la maturità e la vecchiaia. Scorsese è uno dei più grandi Cineasti della storia, e tutto il film ha l’atmosfera di un testamento. Guardando attraverso la porta si vede l’Uomo, silente e spaventato, anche lui nel tentativo di esorcizzare la consapevolezza della senilità. Ma non solo: Scorsese vuole lasciare aperta la porta su quel cinema che ha amato visceralmente, e che sente ormai da anni essere sul viale del tramonto, come ha raccontato nella sua recente lettera aperta sul “New York Times”.
E sono proprio le parole di quella lettera a restituirci la visione del cinema secondo Martin Scorsese.
Il cinema era rivelazione estetica, emotiva e spirituale. Riguardava i personaggi, la complessità delle persone e la loro natura contraddittoria e paradossale, il modo in cui possono farsi del male, amarsi l’un l’altro e improvvisamente confrontarsi con sé stessi.
Utilizzando il gangster movie come pretesto formale, autocitando il suo universo cinematografico, Scorsese sembra per tre ore volersi riallacciare ad un genere in cui ha dimostrato a più riprese di essere il Maestro indiscusso, da Mean Streets a Casinò. Nel finale, scioccando chiunque aspettasse al varco il nuovo, pirotecnico film di Scorsese, il Nostro compie una svolta quasi anomala.
The Irishman si ripiega in un esistenzialismo che riporta al centro dell’esperienza filmica il suo valore fenomenico. Il linguaggio cinematografico torna a farsi strumento di analisi di quelle contraddizioni insite nell’umano, ma questa volta Scorsese si spinge ai limiti naturali dell’esistenza. Lo fa con un film claudicante, come i suoi protagonisti nonostante il ringiovanimento artificiale; un film denso, complesso, registicamente talmente squisito da diventare pesante: una visione quasi vessatoria, per la sua natura gigantesca.
Ma ciascuno dei 210 minuti di The Irishman è una tappa essenziale di questo pellegrinaggio attraverso le tappe di quella nuova Hollywood che Martin Scorsese ha personalmente plasmato e che oggi, con questo film, esala i suoi ultimi afflati. The Irishman, nel finale, ci dona il suo epitaffio, muovendosi nelle dimensioni temporali non solo a livello testuale, ma anche meta-testuale. E quella porta non si chiuderà mai fino a che esisteranno registi con il coraggio di portare sullo schermo la propria interiorità, anche quando misurata con il fantasma della fine.
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