Ascoltate Gesù, ragazzi: il signor West si è convinto, ma si è anche fatto sfuggire la situazione di mano.
Kanye West. Professione: trendsetter dal 2004. E soprattutto, pazzo, impulsivo e autoproclamatosi Dio; non che l’acclamazione popolare non sia arrivata, e in largo anticipo rispetto ai tempi convenzionali: Gesù ci ha messo un bel po’ per far riconoscere il proprio status di Messia a più di dodici persone, mentre a 33 anni Kanye era già un sacerdote con un lieve complesso di superiorità e migliaia di fedeli.
Lo scorso anno Kanye era arrivatoal punto di non ritorno di un brutto giro nei meandri della sua testa: tra il bipolarismo e il ricovero in una clinica psichiatrica, il 2018 non si prospettava un’annata felice per la già complicata carriera musicale di West, con la spada di Damocle del disco rivoluzionario che gli pende sulla testa. Ma l’anno del duemiladiciottesimo compleanno di Cristo si è chiuso con uno dei progetti più solidi del nostro Kanye: le Wyoming Sessions, una sorta di ritiro ascetico in cui il ragazzone ha prodotto cinque album.
Il suo ye è una pillola steroidea di black music (e forse gliene abbiamo dette anche troppe), con i suoi quattro nipoti Teyana Taylor, Pusha T, Nas e Kid Cudi ha messo in piedi un’organizzazione da fare invidia al Padrino. Ne è uscito a testa altissima a livello artistico e personale, con la serenità per spianarsi una strada diritta fino alla consacrazione. Scusate, all’auto-consacrazione, certo.
Ma le vie del Signore sono infinite, e Kanye è inciampato nella più sconvolgente.
La nuova scossa nella vita del signor West si chiama Gesù Cristo. L’incontro fra West e la religione è cominciato con i Sunday Services (di cui vi parliamo qui), una serie di eventi solenni in cui Kanye e vari colleghi riarrangiavano con una vena gospel i classiconi di West: portati anche al Coachella 2019, eletti definitivamente le funzioni religiose del nuovo millennio. Nuova esondazione di ego, forse, tanto che si stava parlando di una “nuova religione” messa su da quello che dal 2010 è il guru dell’hip hop. Forse però ha pensato che pestare i piedi a chi ci ha messo un bel po’ di secoli in più non fosse una buona idea, anche se a livello di street cred forse siamo ad un livello successivo; e i Services si sono rivelati al “servizio” di un Bene superiore.
Quindi, il nuovo album di Kanye si chiama JESUS IS KING, e il 25 ottobre è esploso sulla Rete perché è così diretto ed evidentemente urgente da aver sorpassato anche Yandhi, la chimera che West insegue da due anni. Folgorato come Paolo sulla strada per Damasco, caduto dal cavallo che galoppava diretto verso la santificazione più profana possibile, è arrivato il momento per Kanye di chiudere il cerchio delle influenze della black culture con il gospel. Coraggiosamente cristiano, l’album si apre con Every Hour, declamata insieme al coro dei Sunday Service, che vibra dal pavimento fino al campanile della cattedrale. Quale cattedrale? Quella in cui Kanye anima la messa della domenica mattina. Ah, non è il direttore del coro? Scusate, non ce ne eravamo accorti.
La fretta di dover parlare a tutti ha distratto Kanye dalla musica.
Se sei un musicista con la fotta della religione addosso, è facile pensare che la cosa più facile da fare sia un album. Il problema è che la linea tra la religione in musica e la musica religiosa è sottile, e rischi di diventare un catechista che scrive i canti per l’offertorio. Che poi non è un problema, chiariamo. Ma se consideriamo l’album nel complesso, è più necessario per Kanye che per noi. Nessun artwork, forse ad ulteriore dimostrazione di come il senso del disco stia tutto nelle mani di ciò che vuole dire; in compenso, un monumentale film di 35 minuti, Jesus Is King: A Kanye West Film, ambientato al Roden Crater, un’enorme opera d’arte ancora in fase di lavorazione. Gigantesca, altisonante, come le ambizioni di questo disco.
Coraggiosamente cristiano, l’abbiamo detto, nei testi, con la retorica del gospel e la forte impronta personale del rapporto con la religione, dalla riscoperta della propria ricchezza interiore in Everything We Need all’abbandono totale a Dio di Water. La fede per Kanye sembra pubblica e privata, ma in ogni caso spettacolare; e se i Sunday Services sollevavano le masse, non si può dire lo stesso di questo disco, che sembra essersi dimenticato come si suoni al massimo. I pezzi “propriamente” gospel anche nel sound si contano sulle dita di una mano, e contribuiscono ad allargare il respiro del disco, mentre gli altri potrebbero essere dei brani scartati dalla tracklist di The Life Of Pablo: banalmente minimalisti, e con una sgradevole sensazione di già sentito. Menzione di disonore per l’inquietante Closed On Sunday, in cui Gesù viene paragonato ad un fast-food che chiude di domenica. Insomma, non so se ci siamo capiti.
Da una combinazione tra il vulcano di idee che è West e il gospel, ci aspettavamo ben altro.
I guizzi veramente interessanti escono fuori in Use This Gospel, in cui collaborano il sassofonista Kenny G e il duo Clipse (Pusha-T e suo fratello No Malice): è il segno di come Kanye non abbia perso di certo la capacità di associare modi di fare e di intendere la musica completamente diversi fra loro. E proprio per questo non ci possiamo far andare bene un album in cui Kanye aveva tutte le possibilità, anche a livello di tematiche, per rimescolare il gospel con il suo personalissimo stile.
Invece, forse complice proprio l’affinità fra testi e genere musicale, la musica “religiosa” di Kanye non si spinge più in là di un veloce minestrone di cori e “Jesus is my Lord”. Siamo contenti che il signor West abbia trovato la fede, e speriamo che lo aiuti a rimettere in ordine la testa che gli ha dato un bel po’ di problemi l’anno scorso, ma forse è ora di ritornare sulla musica. L’album del nuovo decennio sta ancora aspettando.