Panama Papers è l’ultima grande produzione Netflix aggiunta al catalogo.
Dopo aver diviso la critica all’ultima edizione della kermesse veneziana, The Laundromat è giunto su Netflix, con il titolo Panama Papers per la distribuzione italiana. Il colosso americano continua la sua incursione nel mondo del grande cinema, riunendo un cast stellare sotto la direzione del premio Oscar Steven Soderbergh. E con questo film Netflix sembra aver finalmente trovato un’aurea mediocritas tra i capolavori titanici, come Romae The Irishman, e produzioni che promettono molto, rivelandosi spesso dei fallimenti. Un’opera coincisa, nerboruta, che non tradisce alcuna premessa.
La storia dei Panama Papers riguarda lo scandalo finanziario del 2016, già raccontato nell’omonimo documentario del 2018 con la voce fuori campo di Elijah Wood. Quando vennero resi pubblici i fascicoli della Mossack-Fonseca le borse di tutto il mondo tracollarono: fu scoperchiato il vaso di Pandora contenente una rete fittissima di società fittizie offshore e mastodontici movimenti di denaro. Unendo la realtà di cronaca all’invenzione, Scott Z. Burns ha plasmato un congegno di scrittura ad orologeria, capace di creare un’originalissimo ritmo narrativo.
Brevitas e rapidità : gli ingredienti di un film fascinosamente spigoloso
Panama Papers rinuncia all’unità di narrazione. Sul palco di una commedia dalle poche sfumature drammatiche si avvicendano personaggi e storie giustapposti da un montaggio serrato, sipario tra scenari senza alcun nesso causale o temporale. Si passa da un episodio all’altro e da una grammatica filmica come si scivola dal thriller al family drama, facendo dello straniamento il perno di questi movimenti. Gli orchestratori dietro le quinte di questa macchina teatrale sono l’istrionico duo d’eccezione Gary Oldman–Antonio Banderas, alter-ego dei criminali Jürgen Mossack e Ramón Fonseca.
Saranno loro ad intervenire a più riprese durante il film, rivolgendosi direttamente al proprio pubblico raccontando il fascino indiscreto del denaro. Come nella memorabile sequenza di apertura, in cui un’ellisse temporale incommensurabile tra la preistoria e la contemporaneità viene affidata ad un efficacissimo piano-sequenza.
Un film senza quarta parete, una finestra (l’oblò di una lavatrice?) aperta su quel mondo sotterraneo di intrighi e segreti confidenziali. In questa narrazione centrifuga spicca il dramma personale dell’incantevole Maryl Streep, che si erge a protagonista della sua crociata verso la verità . Ed è la verità la reale etoile di questo film; compare solo sul finale, in un twist dal sapore fortemente meta-cinematografico.
Il registro scelto da Soderbergh per Panama Papers è quello del decoupage
In un mosaico stilistico così articolato è estremamente interessante soffermarsi sul valore estetico della CGI, utilizzata in maniera quasi volgare nei fondali dei caraibici paradisi fiscali. Il suo utilizzo non vuole essere celato dietro un virtuoso iper-realismo, ma vuole essere l’evidente amplificatore della finzione filmica, che cade definitivamente nel finale, dove non solo non c’è la quarta parete. Non c’è più nemmeno Ellen Martin, che si spoglia letteralmente per tornare ad essere Maryl Streep davanti ad un green screen, emblema dell’illusione. Non c’è più il film, scarnificato in tutta la sua impalcatura drammaturgica, e l’atto di accusa politica arriva quasi postremo, in un’opera che sarebbe potuta facilmente cadere nella trappola del didascalico.
La mise en scene di Soderbergh è intrigante, scevra di toni tronfi o tragici. Tratta una pagina complessa di cronaca recente dipingendo il rovescio più squisitamente grottesco della verità storica. Una commedia brillante passata in sordina in una stagione di capolavori, ma che ha di certo dalla sua la capacità di sospendere la realtà -documentario con la magia del grande cinema.
Tutte le recensioni dalla 76esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia: