In occasione della proiezione stampa in anteprima di The Informer, secondo film americano di Andrea Di Stefano, abbiamo incontrato il regista per fargli qualche domanda diretta. Di Stefano è al suo secondo lungometraggio prodotto negli Stati Uniti, dopo l’esordio con Escobar – Il fascino del male, con protagonista Benicio Del Toro.
Comincio con una domanda un po’ di rito, riguardo la lavorazione del film. In un’intervista hai dichiarato di aver avuto degli scontri con i produttori americani e hai dovuto cambiare alcuni punti del film sia in fase di sceneggiatura che di montaggio.
“Non sono stati degli scontri, è sempre una dialettica tra regista e produttore in America. Può accadere che la si pensi diversamente sul finale, sullo sviluppo del personaggio, se lasciare una scena o meno, se tagliarla, il ritmo del film, ma questo è comunque un confronto costruttivo.”
Cosa senti tuo nel risultato del film e cosa invece avresti cambiato?
“In qualche modo adesso sento tutto mio. È un esercizio che non mi piace fare, andare a vedere quello che sarebbe potuto essere. Poi, per un film bisogna combattere, per quello che è e quello che hai fatto. Ci sono delle cose in The Informer che forse avrei preferito lasciare nella mia versione, e altre che forse hanno migliorato i produttori. Ecco, sono così sportivo da ammetterlo.”
Ci sono stati alcuni momenti del film che ho molto apprezzato. In particolare una scena in cui il protagonista si ritrova a doversi sbarazzare di un cadavere, nel momento in cui stava per scivolare sul sangue la telecamera si è soffermata su di lui, con un effetto rallenti. Mi è sembrato come se cercassi di catturare, attraverso la telecamera, il suo stato d’anima, la sua tensione. In un’altra intervista hai accennato di apprezzare molto il cinema di Marco Bellocchio; ecco, io l’ho visto come un momento psicoanalitico alla Bellocchio, volendo appunto psicanalizzare il disagio del protagonista.
“Una volta ho parlato con una persona che si era ritrovata in una situazione simile, e mi ha raccontato di come, innanzitutto, sulle scene del crimine, quando devi liberarti di una cadavere, ci sia tantissimo sangue. Quando hai finito l’operazione, ti ritrovi coperto di sangue, malgrado tu l’abbia coperto il corpo di plastica. Questa cosa l’ho trovata interessante, anche se è difficile da dire. Così è nella realtà, la morte lascia un segno. Mi ha raccontato, anche che il tempo si fermava, e ancora oggi ripensa quel momento come se fosse stato un rallenti. Quando mi sono chiesto come avrei ricostruito quella scena in The Informer, volevo creare un’atmosfera quasi da incubo, da sogno. Volevo che il tempo si dilatasse e che la realtà si condensasse con i suoni, il suono dello scotch che rompono; come se fosse in qualche modo una scena onirica.”
Intervistando altri registi italiani emergenti, che definirei quelli della nuova leva del cinema italiano, mi interessa conoscere quali impressione hai riguardo questo nuova tendenza che sembra voler rompere con la tradizione. Questo è un cinema italiano che vuole svecchiarsi dai modi classici di fare cinema, proiettandosi in qualche modo verso una dimensione più “americana”.
“Non lo so, non ho proprio gli strumenti per rispondere ad una domanda del genere. Io faccio cinema e racconto tutto quello che ho voglia di raccontare. È chiaro che quello che voglio raccontare, lo stile e la forma che utilizzo, è qualcosa che viene da un istinto, da un’emozione. Fa parte di me, e quello che fa parte di me è quello di cui sono informato. Sono sicuro che questa onda, della quale tu mi parli, costituisce comunque una nuova generazione. In qualche modo siamo stati tutti informato da un altro tipo di visivo, e credo che uno forse potrebbe definirlo “americano” ma c’è molto altro dietro. Vedi anche come si è sviluppato il cinema asiatico, ci sono dei registi che fanno un cinema che noi possiamo osservarlo con molto interesse. Per cui non credo che ci sia un pensiero dietro, una voglia razionale; se ci fosse sarebbe sterile. Se uno provasse a fare cinema in maniera razionale, perché vuole fare il cinema all’americana, non credo che andrebbe lontano.”