C’era e c’è tutt’ora moltissima curiosità su questo Honey Boy. Un film scritto da Shia LaBeouf che racconta l’infanzia di Shia LaBeouf. Nulla di celebrativo, o autocelebrativo, ovviamente. Tuttavia, ci troviamo per definizione ed etichetta nella sfera dei film biografici, o biopic che dir si voglia. Anche se in maniera del tutto atipica.
Nell’epoca di Bohemian Rhapsody, Rocketman e di tutte queste celebrazioni alle star musicali, ecco dunque inserirsi Honey Boy, diretto dalla esordiente Alma Har’el. Fino ad oggi, spot e videoclip musicali compongono la sua filmografia. E possiamo dire senza problemi di sorta che questo è un esordio decisamente col botto. A dir poco perfetto anche grazie al giovanissimo e bravissimo Noah Jupe nei panni del giovane Otis.
Proprio l’attore interpreta James, padre di Oliver, una baby star che sta riscuotendo un discreto successo. James è quello che possiamo definire un redneck, stempiato ed appesantito, con un figlio da crescere senza istruzioni e problemi di dipendenze che, seppur superati, sono sempre dietro l’angolo pronte ad accoglierlo ancora una volta.
Oliver è l’unica fonte di sostentamento che permette alla ridotta famiglia di andare avanti. Inutile dire che questa situazione, definibile al limite per usare un eufemismo, segnerà moltissimo la crescita psicologica della giovane star. L’incipit del film si apre proprio con un’inquadratura fissa su Oliver cresciuto, forse uno stunt-man, che viene fatto saltare in aria. Una voce fuori campo chiama lo stop, il ciak entra in campo. Siamo nel 2005 e Har’el inizia così la discesa nella vita di Oliver/Shia.
Poi arriva un incidente, stavolta vero, che costringe Oliver ad una riabilitazione forzata dall’alcol in una struttura per disintossicarsi. Sarà quindi costretto a fare i conti con il proprio passato e con la squallida realtà che l’ha visto crescere. Al netto di quanto raccontato, il dramma che ha abbracciato la vita di LaBeouf è emblematico. In tal senso, la scelta della Har’el di raccontare una storia di cinema attraverso il cinema permette al film di acquisire una certa autorialità di rilievo nel genere.
Da un lato, troviamo oggetti comuni che diventano veri e propri feticci per Oliver, i quali lo trascinano nel passato. Più precisamente, dentro un evento traumatico che ha segnato la sua crescita. Ecco quindi che Honey Boy diventa un’opera personale, per espiare una colpa o per esorcizzare gli abusi psicologici del padre di Shia, il quale non viene mai colpevolizzato a tal punto.
Dall’altro lato, forse ancora più importante dal lato formale, è interessante notare come Har’el diventi una storia che si sofferma sui mezzi di comunicazione e sul loro linguaggio intrinseco. E quindi troviamo il diario che Oliver deve scrivere e consegnare alla sua terapista che è una sceneggiatura. Un telefono che trasforma il giovane Oliver come intermediario di un terribile litigio tra madre e padre. E ancora la televisione e la radio, in quelle che sono due delle scene chiave del film, a concludere ciò che ha come sfondo il set cinematografico.
Un sogno di Oliver che lo costringe a ripercorrere i suoi luoghi in cui ci sono delle radio che ripetono in loop l’ennesimo litigio tra Oliver stesso ed il padre. Un’altra, forse emblematica rispetto a tutto Honey Boy, in cui il linguaggio audiovisivo della televisione, cavalcando la soap, mette a nudo le mancanze affettive di Oliver. Un semplice bambino di 12 anni che vorrebbe avere due genitori “normali”.