Roman Polanski si avvia alla conclusione della sua carriera.
Storia professionale e storia umana, da sempre indissolubilmente intrecciate nelle sue tragedie personali, rivivono nel suo ultimo capolavoro, J’Accuse. Un’opera dal carattere fortemente testamentario, nella quale l’ombra dei suoi trascorsi difficili con il nazismo e le sue vicissitudini penali permettono alla rilettura dell’affaire Dreyfus di trasfigurare in un’ampia allegoria della giustizia, e della sua maniacale ricerca. Già Leone d’Argento a Venezia, si preannuncia l’ennesima consacrazione di uno dei registi più importanti della storia. Di riflesso all’annunciato successo di J’Accuse, Polanski è costretto a rivivere il traumatisme immesurable del massacro di Cielo Drive. Ferita mai sanata nell’animo di un uomo costretto dalla vita ad una continua lotta con i propri fantasmi, della quale quest’anno si ricordano i 50 anni. Mezzo secolo fa, in una calda e funesta notte hollywoodiana, persero la vita sua moglie Sharon Tate e il bambino che portava in grembo per mano della Manson Family.
Il soggetto prescelto da Tarantino per il suo fiabesco C’era una volta a… Hollywood, che con un atto d’immenso amore sceglie di fermare il tempo al 1969, riportando in vita Sharon Tate e tutto il cinema che la sua morte ha trascinato con sé. Roman Polanski in questo film, più che una presenza, è un’assenza, come tragicamente fu nella realtà. Si incarna in lui l’immaterialità del talento, del successo, del cinema come possibilità. “Il regista di Rosemarie’s Baby, il regista più importante del mondo!”, lo definisce un entusiasta Rick Dalton, vicino di casa dei Polanski. Una breve comparsa che però non sminuisce il suo valore, anzi: lo ritrae fulmineamente in tutto il suo prestigio.
Nella realtà di cronaca, Polanski fu doppiamente vittima dell’eccidio di Cielo Drive.
La morsa del senso di colpa e della paranoia lo costrinsero ad abbandonare Il giorno del delfino, il progetto per cui era a Londra in quel giorno così decisivo nella sua storia. Oltre al dolore lancinante per la perdita, si aggiunse la beffa dell’accusa. Come racconta il regista stesso nel magnifico documentario a lui dedicato Roman Polanski: A film memoir, fu lui uno dei primi indiziati degli omicidi di Cielo Drive. Un’accusa apparentemente insensata, ma che l’avrebbe voluto tra i principali sospettati. Un rito satanico, una tavoletta Ouija: pochi elementi che spinsero gli inquirenti a credere in qualche oscura macchinazione. L’ovvia assurdità di questo sospetto spinse Polanski a proporsi per la macchina della verità, per scagionarsi dall’accusa insensata.
Ma l’efferato assassinio gridava vendetta, o quantomeno sperava nella verità. La ricerca del responsabile divenne per Polanski una vera e propria ossessione, che lo spinse a dubitare anche dei suoi amici. La disperazione gli fece sospettare persino di Bruce Lee. Il regista conosceva tutti i dettagli dell’indagine condotta dalla polizia, eppure mancava sempre un dettaglio. Quella tessera mancante furono un paio di occhiali ritrovati sulla scena del delitto. Il maestro di arti marziali ammise di aver perso un paio di occhiali qualche giorni prima, e mentre la rabbia e la furia montavano, furono scoperti i veri responsabili.
La colpa e l’accusa, motivi cardinali di una tragedia umana.
I topoi centrali del suo cinema si nutrono continuamente del suo personale dramma. J’accuse, un’espressione che di sicuro gli è stata rivolta fin troppo spesso, anche quando meritava di essere lasciato solo nella sua sofferenza. Un dito che non è mai riuscito a puntare, nonostante vittima a più riprese della violenza hobbesiana dell’uomo contro l’uomo. Allora è giunto forse il momento di superare i pregiudizi verso un uomo che ha sofferto e causato dolore, ma a cui non è mai mancato un profondo senso di umanità.