Radical chic è un’espressione diventata comune in un certo vocabolario politico.
L’arma principale della dialettica propagandistica della destra, con la quale ha raggruppato tutti i suoi avversari ideologici sotto un’unica categoria. Un marchio sociale, che vorrebbe individuare gli intellettuali di sinistra dallo stile di vita borghese, e viceversa. Tanto che in spagnolo il corrispondente di radical chic è, equivalentemente, izquierda caviar, cioè “sinistra-caviale”, oppure burgués bohemio, ovvero “borghesi bohemien”.
Un binomio che nasce come un’esplicita contraddizione in termini. Come può la nobiltà del XX secolo avvicinarsi ad idee socialiste? Come possono marxisti o leninisti relazionarsi con i loro nemici per eccellenza, e abbracciarne il tenore di vita? Probabilmente queste erano le domande fondamentali che tormentarono Tom Wolfe, quando nell’ormai lontano giugno 1970 pubblicò un lunghissimo articolo sul New York Magazine. Radical Chic: That Party at Lenny’s è il titolo di un ritratto dissacrante e provocatorio, che vede deuteragonista uno dei più grandi maestri della storia della musica: Leonard Bernstein.
L’evento a cui fa riferimento il giornalista ebbe luogo mesi prima.
Nel lunghissimo inserto, di circa 29 pagine, il giornalista miscela continuamente toni e registri, come un Carlo Emilio Gadda d’oltreoceano, sfiorando raramente quello puramente cronachistico. Si mantiene sempre sulla descrizione ironica della festa che ebbe luogo il 17 gennaio a casa di Leonard Bernstein. L’evento, organizzato dalla moglie Felicia Montealegre, fu una sfarzosa sfilata dell’alta borghesia newyorchese, chiamata in causa per raccogliere fondi in beneficenza delle Pantere Nere. Ed ecco quindi il nucleo della contraddizione. Le Pantere Nere erano un movimento che cercò di raccordare la sollevazione del popolo afro-americano a motivi tipicamente social-comunisti. Ma molto meglio del mero racconto, le parole stesse di Tom Wolfe, che in questo paragrafo, per la prima volta nella storia, utilizza l’espressione radical chic.
Mmmmmmmmmmmmmmmm. These are nice. Little Roquefort cheese morsels rolled in crushed nuts. Very tasty. Very subtle. It’s the way the dry sackiness of the nuts tiptoes up against the dour savor of the cheese that is so nice, so subtle. Wonder what the Black Panthers eat here on the hors d’oeuvre trail? Do the Panthers like little Roquefort cheese morsels wrapped in crushed nuts this way […], at this very moment being offered to them on gadrooned silver platters by maids in black uniforms with hand-ironed white aprons … The butler will bring them their drinks … Deny it if you wish to, but such are the pensées métaphysiques that rush through one’s head on these Radical Chic evenings just now in New York.
Un discorso libero indiretto che spinge il lettore a cogliere il grottesco in una Pantera Nera che gusta le libagioni dell’aristocrazia, riverita come se fosse una di loro. Servita sì da camerieri, ma dalla servitù bianca, non quella di colore, come ci tiene a sottolineare Wolfe. Sarebbe stato di certo il culmine della stravaganza. Stravaganza che non manca alle pellicce, ai gioielli, all’ostentata ricchezza di queste stelle del firmamento borghese che si fanno portavoce delle cause degli ultimi, pur guardandoli con sguardo indiscreto: uomini e donne vittime delle disparità di una società plasmata secondo la fortuna dei primi.
E mentre il giornalista intesse un lungo arazzo intorno a Felicia Montealegre e i suoi ospiti, emerge un’immagine politica del Maestro.
“… Lenny stands here in his own home radiating the charm and grace that make him an easy host for leaders of the oppressed …”
Nel report estremamente dettagliato della serata, Leonard Bernstein viene tratteggiato come un co-primario di una grande farsa borghese. Mentre la macchina teatrale ruota intorno alla moglie, lui viene dipinto al margine della scena. Irradia il fascino e la grazia che lo rendono il perfetto padrone di casa per i leader degli oppressi. E se si pensa al suo capolavoro, West Side Story, si intravede la sua pietas verso gli ultimi, di qualsiasi natura. Il modo in cui ingloba la musica popolare di certe tradizioni è l’inequivocabile segnale della dignità che il Maestro vi riconosceva.
Ma oltre lo sguardo compassionevole verso i reietti della società, West Side Story è soprattutto una storia d’amore. Ed è l’amore il vero messaggio che Lenny voleva veicolare, oltre la violenza che spesso e volentieri caratterizzava le azioni dei Black Panther. Così la visione che Bernstein ebbe in prossimità del suo compleanno nel 1966, abilmente romanzata da Tom Wolfe, assunse in quella serata il sapore del presagio di un’amara consapevolezza.
Bernstein immaginò se stesso in procinto di esprimere un messaggio contro la guerra al gremito pubblico accorso per un suo concerto. “Io amo”, avrebbe detto. Ed a quel punto un uomo di colore sarebbe comparso dietro il pianoforte, sottolineando l’imbarazzo della sala. E a Bernstein sembrò di vedere quello stesso uomo al suo ricevimento, ascoltando discorsi che resero il suo amore universale pura utopia. Un intento da vero eroe romantico, che lo rese certamente meno radical chic dei suoi sfarzosi invitati.