L’horror è un genere nel quale i registi asiatici hanno sempre eccelso negli anni. È obbligatorio quindi citare tra i pionieri Hideo Nakata che con il suo ormai ben noto Ringu, un film divenuto un’icona della paura made in Asia, ha spianato la strada a vari riconoscimenti internazionali e ha dato il via ad un’abbondante produzione di film del genere, ottenendo enormi successi non solo in Asia, ma in tutto il mondo, anche a fronte di una grande differenza culturale.
Tanto che, di conseguenza, l’horror americano, oramai ristagnato da tempo, ha riprodotto i remake dei più famosi tra questi film, invitando persino alcuni dei migliori registi asiatici negli Stati Uniti, al fine di collaborare per la buona riuscita delle loro pellicole.
Di seguito un elenco di dieci horror asiatici che non potete assolutamente perdere, tra i cui registi noterete i nomi di grandi maestri come Kiyoshi Kurosawa, Kaneto Shindo e Nobuhiko Obayashi:
Suicide Club (2002, Sion Sono)
Suicide Club è stato il film che ha consacrato Sion Sono come un vero cineasta di culto. L’apertura del film inquadra i due grandi protagonisti, la morte e la massa.
In Giappone il tasso di mortalità è tra i più bassi al mondo e la popolazione arriva a essere molto vecchia. In una società stabile che si rigenera lentamente e che fa della coesione il proprio tratto identificativo, la nuova generazione si ribella alla prospettiva di un anonimato agonizzante e massificato, attraverso la deliberata negazione del sé integrato in quella stessa realtà. Sono crea un film metaforico che vuole raccontare l’alienazione della società giapponese attraverso l’estremo atto del suicidio.
Il regista rappresenta, con sguardo cinico e feroce, la collettivizzazione della morte usando la sua estetica pop-gore. Qui Sono accentua la drammaticità con la grazia kawaii delle studentesse in divisa da liceo che, sorridenti, aspettano di gettarsi tutte insieme sotto al treno della metropolitana. L’orrore si manifesta in questo duplice aspetto: la massa e il sereno entusiasmo del suicidio. La moda-morte diventa un aspetto qualificante della subcultura giovanile della tv e di internet. Internet è infatti il medium, ovvero il mezzo che “connette”, ma anche il medium nel senso popolare di mago e chiaroveggente, con i pallini che appaiono sullo schermo del computer un secondo prima che si sappia quanti altri ragazzi si sono appena suicidati. Ormai un classico tra gli horror asiatici.
Ju On: The Grudge (2002, Takashi Shimizu)
Secondo un’arcana leggenda, quando qualcuno muore a causa di una morte violenta o mentre si trova in uno stato di estrema rabbia, nasce una maledizione, che fa tornare le vittime coinvolte nell’ultimo luogo nel quale sono morte, sotto forma di fantasmi.
In questo particolare horror giapponese un marito uccide la moglie assieme al figlio dopo aver scoperto che quest’ultima consumava una relazione con un altro uomo. Tempo dopo, quando la famiglia Tokunaga si trasferisce nella casa dove è avvenuto l’omicidio, la maledizione si manifesta con risultati terrificanti.
Takashi Shimizu, qui anche in veste di sceneggiatore, pone gli eventi in un ordine non cronologico e da diversi punti di vista alternati, arrivando a creare una perfetta macchina angosciante. Ricorre a pochissime location, e anzi, dà il meglio sempre all’interno della stessa casa.
Le musiche sono completamente assenti ed un’atmosfera quasi onirica è pronta ad infrangersi su sequenze terrificanti. Shimizu riesce a dirigere un film davvero spaventoso, la cui caratteristica più distintiva è che le scene più angoscianti e agghiaccianti si verificano tutte alla luce del giorno. Ju On: The Grudge è il seguito del film-tv Ju-on, diviso in due episodi e diretto sempre dallo stesso Shimizu.
A Tale of Two Sisters (2003, Kim Jee Woon)
Soo-Mi (Lim Soo-Jung) e Su-Yeon (Moon Geun-Young) tornano a casa dopo una prolungata malattia e un ricovero in ospedale. Le cose non sono state più le stesse da quando la loro madre è morta. Il loro ritorno è accolto dall’odiosa matrigna Eun-Joo (Yum Jung-Ah). Soo-Mi, la più vecchia e la più forte tra le due, non ha paura di esprimersi. Su-Yeon è più timida e diffidente nei confronti della matrigna e chiede aiuto alla sorella. Continuamente prese di mira e molestate da Eun-Joo, le due non hanno altra scelta che sopportare la relazione per il bene del padre. Da quel momento in casa iniziano a verificarsi cose inspiegabili. Qualcosa è cambiato, nessuno sa cosa sia, ma le sorelle riescono a percepirlo.
Il regista, Kim Jee Woon, prende la classica fiaba popolare coreana, Janghwa Hongryeon Jeon (La storia di Janghwa e Hongryeon), e la trasforma in un moderno e magnifico esempio di cinema horror. Uno straziante melodramma sulla perdita, che descrive bene la tragedia presente in questa famiglia. Un film che sa come creare suspense e tensione anche grazie a una location interessante, ripresa molto bene da una regia attenta, che gioca molto sui rumori e sulle atmosfere. La pellicola è inoltre sollevata dallo splendido motivo musicale, atto a sottolineare ogni passaggio narrativo importante della storia (dall’arrivo fino alla parte finale). Altrettanto impressionante è l’uso dei colori degli interni delle ambientazioni: una tecnica che intensifica il senso di agonia e terrore, oltre alla presenza di una fotografia cupissima.
Dark Water (2002, Hideo Nakata)
Yoshimi è una giovane donna che ha appena divorziato. Insieme alla sua piccolina di sei anni, Ikuko, si trasferisce in un appartamento di un vecchio palazzo fatiscente, ai limiti della vivibilità. Ma nell’edificio si nasconde qualcosa di strano e spaventoso.
Dopo Ringu, Hideo Nakata torna a dirigere un film d’atmosfera horror, cupo e intimista, che affronta diversi sottotesti senza creare confusione. Abbiamo l’analisi di un rapporto madre-figlia, ma sopratutto l’immagine della donna divorziata in un paese come il Giappone. Una situazione per niente facile, sopratutto perché la nostra Yoshimi ha avuto qualche problema psicologico in passato, e al dramma della separazione si aggiunge quello del sovrannaturale. Dark Waterriesce ad angosciare, senza aver bisogno di spargere sangue. La pellicola è ispirata ad un omonimo racconto scritto da Koji Suzuki. Qualche anno più tardi, nel 2005, è stato fatto un remake che mantiene lo stesso titolo.
Marebito (2004, Takashi Shimizu)
Masuoka (interpretato dal grande regista Shin’ya Tsukamoto) è ossessionato da video di qualsiasi tipo: divide il suo tempo tra la visione casuale di questi (sui numerosi monitor presenti in casa) e le continue riprese per le strade effettuate con la sua videocamera. Un giorno registra un uomo che si suicida, apparentemente sotto l’influenza di un oscuro presagio che solo lui può vedere. Così scopre che non solo l’amore penetra dagli occhi, ma anche l’orrore. Masuoka, alla continua ricerca di quest ultimo, ne diviene ossessionato. I suoi occhi non hanno visto qualcosa che lo ha terrorizzato. Hanno visto qualcosa proprio perché egli è terrorizzato.
Qui Takashi Shimizu abbandona le storie di fantasmi per addentrarsi nei meandri della follia umana, in un incubo più complesso e sfuggente. Un grandissimo esempio di come girare un horror low-budget possa essere estremamente efficace. Marebito penetra dentro il cervello trascinando lo spettatore negli abissi più nascosti della mente, quelli dove risiede proprio la follia. Il regista riesce a costruire un’atmosfera terrificante attraverso un ritmo lento e dilatato, dialoghi scarni e un susseguirsi di immagini e avvenimenti inquietanti, che indugiano tra l’estremo e il fantastico, esplodendo infine in uno squarcio visivo abbagliante. Un film cupo, grigio e disperato.
Basato sul manga horror Uzumaki di Junji Ito, Spiral è un film quasi unico nel suo genere, in quanto combina horror, commedia nera e surrealismo. La storia ruota attorno a una città e ai suoi abitanti, i quali divengono ossessionati da tutto ciò che ha una forma a spirale o a vortice, fino a raggiungere piano piano la follia più totale.
La visione stessa del film può essere paragonata a una spirale: inizialmente si inizia a girare piano, ma man mano che il tempo passa e il cerchio si stringe, la velocità aumenta fino a divenire vertiginosa. Higuchinsky riesce a dirigere un film originale e folle, in costante bilico tra l’onirico e il grottesco. L’atmosfera che si respira durante la visione è unica, così come il disorientamento che causano le sequenze, lontane da qualsiasi canone e struttura tipica di cinema “horror occidentale”, che rende l’originalità del film pressoché totale, esaurendosi in se stessa proprio come una spirale.
Hausu (1977, Nobuhiko Obayashi)
Per le vacanze estive una studentessa giapponese, assieme alle sue sei amiche, va in visita nella casa della zia, situata in un luogo isolato e inquietante. Lì si troveranno ad affrontare apparizioni terrificanti e imprevedibili, nonché minacce soprannaturali.
Hausu è uno dei film più folli e strani di tutti i tempi: un fantahorror pop-kitsch dal polimorfismo esasperato. Mai visto un film così farneticante e esplosivo, in cui la tematica della casa stregata è solo un pretesto utilizzato per mettere in scena uno sfavillio di grande potenza visiva: ritmo frenetico, gore, scoppi, filtri fotografici che fanno esplodere gli occhi, inquadrature di ogni tipo e una colonna sonora martellante. Uno slasher con scene demenziali, personaggi di culto e straordinari effetti visivi, che lo rendono uno dei film più assurdi e deliranti del cinema giapponese.