Il set e la realtà continuano a compenetrarsi, avendo annullato ormai qualsiasi possibile distinzione. Ciò che è più interessante in questo episodio è però l’utilizzo della soggettiva libera indiretta. Tarantino torna a sostituirsi ad un personaggio, ma in questo caso per dispiegare i suoi violenti cliché. Sfruttando lo stato mentale alterato di Cliff Booth, ci troveremo davanti ad un grottesco e surreale massacro. L’ipertrofica recitazione di Mikey Madison, splendida hippy indemoniata, e la grande rivalsa da protagonista di Rick Dalton sono il coronamento di una sequenza magnifica. Di certo non frutto del trip di Cliff, anche se è lui stesso a chiedersi se tutto ciò fosse reale. La sua condizione alterata è però il pretesto narrativo per inscenare il massacro come uno sfogo, come un monologo interiore, in cui finalmente Brad Pitt diventa personaggio primario.
C’era una volta a Hollywood, Analisi interpretativa e significato
Analizzare le forme di C'era una volta a... Hollywood significa riscoprire l'amore per un cinema estremamente vivo nell'immaginario dell'autore
Il lanciafiamme di Di Caprio permette di aprire un’ultima parentesi su C’era una volta a Hollywood.
Tra le varie auto-citazioni, da Casa Vega al mosaico del dolly di apertura di Jackie Brown, spicca sicuramente quella ampia di Bastardi senza gloria, che subisce due variazioni consistenti. La prima all’inizio del film, quando Marvin Schwarzs (Al Pacino) enumera alcuni dei ruoli più emblematici di Rick Dalton. Ne I 14 pugni di McClusky viene rielaborata la celeberrima scena dell’incendio del cinema ad opera di Shosanna, che quasi tradisce la volontà di Tarantino di storicizzarsi. Alla continua rielaborazione fittizia della Hollywood tanto amata affianca anche il proprio cinema: si compenetrano storia personale e storia artistica, ma anche storia del Cinema e storia del proprio cinema.
Altre dicotomie che scindono ulteriormente l’identità di Tarantino, caleidoscopico deus ex machina di una perfetta macchina di scrittura e di regia. La seconda variazione è però ancora più audace della prima. Nel rivisitare ulteriormente uno dei suoi miti, Tarantino lo trasforma in un puro simbolo; elemento in termini squisitamente rappresentativi con il suo cinema. Uno stilema privo di qualsiasi involucro concettuale e artistico, puramente estetizzato, in forma di art pour l’art. Così all’autore non è mancato il coraggio di affrontare il valore sedimentato della sua arte, guardando retrospettivamente al proprio passato.
L’ultima dialettica della Storia è quindi il presente.
Dialettica che rivive simbolicamente nel passaggio tra la vecchia e la nuova Hollywood. Contrasto che si nutre della coesistenza tra un linguaggio ormai più che emblematico e una certa volontà di sperimentare. In questo film Tarantino perviene ad un utilizzo della macchina magnetico, quasi spiritico, specie nelle ripetute carrellate a seguire, indubbia cifra stilistica dell’opera. Alla perizia tecnica si aggiunge una grande sensibilità nella costruzione di corrispondenze attraverso le sole immagini, che smentisce qualsiasi idea, purtroppo diffusa, sul Tarantino eterna parodia di se stesso.
Allora C’era una volta a Hollywood potrebbe essere davvero il film dell’addio. Non solo per le dichiarazioni dello stesso regista, ma perché, come Inland Empire per Lynch o il recentissimo Dolor y gloria per Almodóvar, rappresentano la summa di un linguaggio che si è stratificato negli anni. Un commosso commiato, pieno di incanto e positiva auto-celebrazione, dalla propria storia artistica ed umana.
A cura di Leonardo Di Nino e Davide Roveda
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