Non è credibile, al giorno d’oggi, dichiarare di non saper distinguere le sonorità caratteristiche della trap.
Tutti sono in grado di identificare e riconoscere il suo beat fatto di 808, sintetizzatori e bass drums, elementinecessari a produrre la quintessenza del suono del genere trap. Tuttavia, nonostante la sua innegabile popolarità, potrebbe sembrare quasi impossibile cercare di spiegare cosa sia veramente con parole che non siano già state utilizzate da altri.
Le testate giornalistiche ne parlano come l’essenza della più giovane delle generazioni, qualche genitore eccessivamente protettivo come il male del decennio, mentre la critica più esperta come un inaspettato miscuglio di generi musicali che, all’apparenza, hanno molto poco in comune. Ovvero, un mix di dub –che si proietta nella predilezione per le frequenze più basse e per la ripetitività–, di musica dance –riconoscibile nel suono acuto dei sintetizzatori, nel frequente (ed esagerato) uso del campionamento e nella ripresa di canzoni EDM che, all’epoca, avevano fatto la storia del genere– e, per finire con l’influenza più ovvia e scontata, di hip hop.
La nascita della trap è associata dai più alla seconda metà degli anni dieci: sono davvero pochi coloro che ne conoscono la vera storia nei dettagli, senza ignorarne l’origine e il successivo sviluppo. Questo inedito sound nacque, in realtà, come un sotto-genere della musica hip-hop, come si può dedurre facilmente dalle sue principali caratteristiche musicali, nelle aree più meridionali degli Stati Uniti d’America, trovando le proprie radici nella quotidianità della minoranza afro-americana. Era la fine del 1990 ad Atlanta, all’epoca conosciuta come la città del crack e della cocaina, oltre ad essere un centro di violenza e criminalità.
Le immense potenzialità del genere trap, tuttavia, furono captate e identificate solamente nella prima metà degli anni duemila.
La sua crescente popolarità fu inevitabilmente accompagnata dalla necessità di definire attraverso un rigido sistema di etichette la sonorità che il pubblico stava apprezzando così tanto: il nome tanto ricercato dalla critica venne trovato nell’album Trap Muzik, pubblicato dal rapper statunitense T.I. nell’agosto del 2003. Il titolo del disco è stato solitamente associato alle cosiddette traps americane, le case sudicie e il più delle volte abbandonate in cui gli spacciatori “cucinavano” e impacchettavano la droga che avrebbero dovuto, in seguito, vendere.
Dopo aver trovato un suo nome proprio, il genere assistette ad un crescendo della propria influenza con l’emergere di quella che è stata definita come la sacra trinità della trap: Gucci Mane, T.I. e Young Jeezy. Diverse volte, in numerose interviste, i tre vennero associati all’essenza del gangsta rap, quasi come se ciò che era stato quest’ultimo fosse idolatrato e glorificato attraverso la loro musica –la trap–. E i tre negarono: “Io non rubo e non vendo droghe, non faccio più niente di illegale” dichiarò T.I. nel tentativo di dissociarsi dalla condotta che caratterizzava gli esponenti del gangsta rap. “Eppure, se mi chiedessero di scegliere tra spacciare o [vedere, ndr] i miei figli morire di fame, cosa dovrei rispondere?”.
La trap, tuttavia, non è nata solo grazie alle produzioni musicali di Young Jeezy, T.I. e Gucci Mane. È un altro il nome dell’uomo che inventò quel beat trascinante: il produttore e dj Greg Broussard, conosciuto anche con il nome d’arte di Egyptian Lover. Con il suo inseparabile Roland TR-808, la drum machine utilizzata per produrre Planet Rock –traccia iper-popolare che riuscì a portare sotto i riflettori di Los Angeles la musica elettronica, miscelata ad interessanti sonorità hip-hop–, Broussard diede vita ad un genere inedito. Un genere che nessuno avrebbe mai pensato sarebbe diventato così influente trentanni più tardi.
Ieri come oggi, le parole della prima trap venivano da strade caotiche e violente e narravano della vita di piacere ed eccessi che, a volte, poteva derivare dalle più disparate attività illegali.
È proprio grazie all’etimologia del sostantivo con cui viene definito il sound caratterizzante la generazione post-millennials, si possono facilmente dedurre alcuni degli argomenti toccati da tale genere musicale: prime fra tutto, le droghe. A partire dagli anni ‘90, le storie che venivano raccontate dai trappers erano simili a quelle che vengono cantate ancora oggi, a distanza di più di vent’anni: storie di drammi e di rovina, storie da cui bisognava stare alla larga. Almeno, stando a quello che dicevano le madri.
La realtà presentata dalla trap è sempre lo stesso mix di edonismo e nichilismo, malinconia e soddisfazione, luce e oscurità. Il genere musicale, infatti, è sempre stato interpretato come una bizzarra proiezione del sogno americano, presentato nella sua declinazione thug life: i trappers cantano che è possibile scappare dalla cruda vita della strada, che è possibile non essere più poveri, che è possibile diventare ricchi. E, in questo aspetto, si manifesta la natura contraddittoria di questa sonorità: la crudeltà di un’esistenza passata in una trap house viene idealizzata e nascosta sotto strati d’oro e di diamanti, di banconote viola e di belle ragazze pronte a tutto per essere parte di questo paradiso. È quasi come se, senza nemmeno rendersene conto, la trap fosse diventata un’allegoria (sotto certi aspetti, superficiale) della vita nel tardo-capitalismo.
La trap si è riuscita a mostrare come un genere ibrido, capace di modificarsi e di adattarsi a sonorità completamente diverse da quelle iniziali.
Grazie a questa peculiare caratteristica, un sound che prima era di nicchia si è trasformato in un fenomeno mainstream. Dopo la parentesi d’origine avuta con artisti come la triade sopracitata, Manny Fresh e Waka Flocka Flame, anche Kendrick Lamar, per esempio, lontano mille anni luce dalle cosiddette trappate, ha deciso di prendere in prestito qualche aspetto della musica trap nel suo geniale album To Pimp a Butterfly. Ma cosa sta diventando oggi la trap?
Una risposta può essere fornita dallo svedese Yung Lean, un’artista complesso e completo che, facendo suoi i riferimenti culturali statunitensi, dà voce ad una realtà diversa. Ad una realtà fatta di timori, isolamento e silenzi.