Il 13 settembre è stato pubblicato dalla Infectious Music il settimo disco della storica band di Boston. Black Francis e compagni sono riusciti a farci dimenticare i precedenti due dischi? Vediamolo insieme
Con i Pixies ci eravamo lasciati nel 2016 con Head Carrier, un disco che lasciava molto a desiderare. Era probabile che i difetti di quel disco fossero da imputare alla produzione, vista la scelta di operare con un produttore diverso da quello che li aveva accompagnati per quasi 30 anni. Escluso l’eccezionale lavoro di Steve Albini durante la realizzazione del disco d’esordio Surfer Rosa, fu infatti Gil Norton a prendersi l’onere di produrre la band di Boston, da Doolitle in avanti.
Per capirci, Gil Norton era un ometto che negli ottanta produceva Echo & the Bunnymen e i Throwing Muses e negli anni novanta Pere Ubu e Pale Saints. Decise però nel 2013, dopo anni di produzioni minori, di tornare sui suoi passi e di riprendere le redini della band di Black Francis, producendo quei tre EP che confluirono nell’anno successivo in Indie Cindy. Il disco che avrebbe dovuto segnare la rinascita dei Pixies.
I fan sanno benissimo che ciò non avvenne, e ne ebbero conferma due anni più tardi con il sesto disco. Come prima accennato, stavolta alla produzione non c’era più Gil Norton, compagno di una vita, ma un altro ometto decisamente più giovane. Tale Tom Dalgety, dall’Inghilterra, era stato nominato produttore dell’anno in patria, anche grazie al suo (c’è da dirlo) ottimo lavoro coi Royal Blood, i quali devono al giovane produttore la limpidezza nei mixaggi del loro omonimo disco d’esordio.
Non solo cambi di produzione
Purtroppo, com’è noto, non bastò la formidabile preparazione di Dalgety per dare mordente e nuovo smalto a quel lavoro discutibile che è Head Carrier. C’è anche da dire che la band non era più affiatata come un tempo. Kim Deal aveva già abbandonato il gruppo da tre anni e la grande preparazione della sostituta (Queens of the Stone Age, A Perfect Circle, Billy Corgan…) non sopperì alla sua mancanza. Ma forse alle due nuove reclute serviva solo del tempo.
Il riacquisito mordente
Per Paz Lenchantin, la nuova bassista argentina, e Tom Dalgety, nuovo produttore britannico, questo settimo e inatteso disco era l’occasione giusta per riscattarsi. Per la Lenchatin era anche più complicato, dato che era stata presente anche in Indie Cindy. Già con On Graveyard Hill, primo estrato di Beneath the Eyrie, il registro cambia a loro favore.
Le sonorità del singolo si rifanno molto al periodo del loro terzo disco, datato 1990. Bossanova fu infatti leggermente diverso rispetto ai due capitoli precedenti. Abbracciava più la parte surf e ”collegiale” del rock che non quella noise che li distingueva. E forse non è un caso che questo brano rimandi al periodo in cui Black Francis e Kim Deal cominciarono a litigare pesantemente, vista l’odierna di lei assenza.
Il singolo convince. La band ha riacquistato il mordente di un tempo. La voce di Francis sembra non essersi evoluta (scopriremo che non è così) ma non ha neanche perso quel suo timbro particolare e versatile. Siamo quindi al 4 giugno. Per il secondo singolo bisogna aspettare agosto e la traccia si chiama Catfish Kate.
Analizzando questo secondo singolo possiamo da subito notare che (come accennato) la voce di Francis ha acquisito quella profondità che si addice a un pluricinquantenne. E nel complesso del brano, questa nuova peculiarità fa la differenza. Le qualità sonore di Joey Santiago, inoltre, si dimostrano invariate e all’altezza dei fasti del passato. Il riff principale è convincente e rimane piacevolmente in testa, così come l’outro: tanto corto quanto efficace.
La voce di Lenchantin
Se c’era una cosa che caratterizzava il sound dei vecchi Pixies era la splendida commistione delle voci di Francis e Kim. Ebbene, stavolta Paz rispetta le aspettative. In un brano leggero ma ben riuscito come Ready for Love, non sentiamo per nulla la mancanza dei cori di Kim, sostituiti alla grande dalla voce della bassista argentina che ben riesce a sposarsi col nuovo timbro vocale del grande Frontman.
I Pixies hanno abituato i loro ascoltatori alla doppia faccia dei loro scritti fin dalle primissime tracce registrate. Ballate e menate furibonde si alternavano nella scaletta senza stonare tra loro. Avviene in Beneath the Eyrie un certo recupero di questa caratteristica peculiare, ma non in maniera perfetta come accadeva tra gli ’80 e i ’90. L’ending track ad esempio e fin troppo slegata dalle tracce precedenti, risultando più superflua che originale.
Death Horizon infatti come inizia finisce, e non te ne sei neanche accorto. Un po’ spiacevole come chiusura di un disco. Specie quando la traccia precedente è Daniel Boone, brano che rappresenta un unicum nella carriera della band. È una ballata che oscilla tra il folk alla Of Monsters and Men e le soluzioni melodiche dei Radiohead (l’outro può addirittura ricordare Karma Police). Insomma quella che sarebbe stata la conclusione perfetta di un avvenuto riscatto musicale.
Questo tipo di suggestioni erano state lasciate alle spalle già da Surfer Rosa, e vederle riemergere è tutt’altro che ripetitivo. Così come non lo sono Daniel Boone e This is My Fate, altro unicum della loro carriera ma sul versante più schizoide e ”cabarettistico”. Preferiamo fermarci qui con la recensione ed invitiamo i lettori a scoprirsi da soli questa traccia e le altre 6 che non abbiamo nominato. Vi garantiamo una quarantina di minuti ben spesi, e non passati a rimpiangere il passato di una band che, nonostante i passi falsi, ha comunque segnato la storia del rock e della musica tutta.