Si dice che un grande cineasta faccia sempre lo stesso film. Frase di dubbia attribuzione che però descrive perfettamente l’arte di Roy Andersson. Al limite dell’anti-cinematografico, i suoi film nel corso degli anni hanno rappresentato il dispiegarsi di una precisa idea di cinema. Ciò che rappresentava un grottesco esordio è oggi un’estetica granitica: About Endlessness (Om det oändliga) conferma l’infaticabile volontà dell’autore di non scendere ad alcun compromesso con essa, con se stesso.
Leone d’oro nel 2014 con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, Roy Andersson torna oggi al Festival di Venezia con il suo nuovo film. E se parlare di stile, di un linguaggio, è più che appropriato per un autore del genere, quest’ultima opera si può considerare il suo capolavoro. Riuscire a sorprendere ancora oggi un pubblico ormai abituato alla sua sintassi è infatti una riuscitissima operazione di grande cinema.
Con About Endlessness continua la fenomenologia dell’umano di Andersson.
Un topos di sapore bergmaniano. La lezione del maestro rivive nel personalissimo sguardo dell’autore, che si avvicina all’ideale conclusione del simbolico tragitto che lo vede da anni in cammino. Il piccione del regista oggi riflette sulla morte e sulla disperazione, indagando l’esistenza a nuovi livelli. Così il dramma che emergeva dalla scena della rupe di Canzoni dal secondo piano, o quello della sequenza “Homo Sapiens”dal Piccione, arriva a permeare tutto il film. Una sofferenza eterna, leopardiana, che viene inquadrata in una prospettiva storica: i temi ricorrenti della solitudine e del silenzio di Dio assumono una colorazione più livida, oscura.
Andersson infatti sperimenta nuove soluzioni alle sue complesse idee. L’inserimento di una voce fuori campo per tutta la durata del film collega le diverse situazioni. Emerge come l’eco dello spirito della Storia, prendendo in prestito la poesia da Giambattista Vico, storicizzando il dolore. Così nel mosaico del film troviamo Colonia devastata dai bombardamenti nel 1942 e il terrore di Adolf Hitler alla fine della sua parabola di conquista, a fianco alle stranianti e quotidiane vicissitudini dei personaggi di Andersson.
L’effetto che ottiene con questa trovata è però curiosamente anomalo nell’articolazione del suo stile. L’ossessione per l’inquadratura fissa gli ha permesso di pervenire all’oggettività assoluta della ripresa. Il voice-over che racconta di aver visto le immagini che scorrono su schermo le trasforma in soggettive libere indirette, mutuando la definizione da Pasolini. In fondo questa voce è un personaggio della storia ed è attraverso i suoi occhi che siamo partecipi dell’intera vicenda. Una scelta che è quindi un’importante variazione all’interno di un’estetica ormai marchiata a fuoco nella storia del cinema.
About Endlessness rimane comunque in larga parte fedele a questa estetica.
Come nei precedenti film, il rifiuto del movimento della camera si sublima in un solo ed unico movimento. La lentissima panoramica del bar nel Piccione durante la processione del potere; la carrellata all’indietro nella stazione ferroviaria di Canzoni dal secondo piano; l’attenta combinazione di questi due movimenti base in You, the living, nella scena musicale della taverna. Come se si concedesse una licenza dalla severità con cui applica i suoi stilemi, anche in About Endlessness vi è un’unica panoramica, che ci regala uno dei momenti più belli della filmografia di Andersson sorvolando le macerie distrutte di Colonia.
Anti-narrativo non significa quindi anti-lirico. Le immagini spesso parlano al posto degli asettici personaggi, capaci comunque di dare vita a scambi di battute dai perfetti tempi comici. Un utilizzo importante del black screen accentua la divisione in capitoli di una tragicommedia teatrale, in cui i personaggi sfruttano spesso le quinte formate dai confini dello schermo o del fondale per entrare e uscire di scena.