Venezia 76 – Il sindaco del rione Sanità, recensione

Il regista partenopeo mette a segno un altro colpo da maestro.

Il sindaco del rione Sanità
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Il nuovo film di Mario Martone è oggi in anteprima al Lido. Il regista tornerà sulla terraferma, ma senza allontanarsi troppo dalla Capri che ha dipinto così splendidamente nel suo ultimo film. Il sindaco del rione Sanità è ambientato infatti sulle pendici del Vesuvio, tra la cima del vulcano e il rione Sanità, che si estende fino alla costa. Se però vi è contiguità tra le ambientazioni, non vi è assolutamente somiglianza tra i due film, che sviluppano idee artistiche completamente diverse.

Capri-Revolution iniziava con le bellissime inquadrature dell’isola, illuminate e risplendenti sotto il Sole partenopeo. Una sceneggiatura originale, nutrita di tante suggestioni espressive, che parlava di arte e rivoluzione. Come per contrasto, Il sindaco del rione Sanità apre il sipario di notte, al buio, riprendendo quella dicotomia tra luce e ombra degli ultimi film di Martone, ma estendendola su larga scala. Iniziando nel segno di un ideale contrasto visivo, questa nuova opera marca la sua natura.

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Il sindaco del rione Sanità è l’adattamento di un’opera teatrale.

Martone sceglie l’omonima commedia in tre atti di Eduardo De Filippo, una scelta che continua a legarlo alla sua terra. La sequenza iniziale diventa allora un ouverture in cui vengono presentati alcuni dei personaggi chiave della vicenda, e in cui vi è una sorta di delirante prologo. Due amici, O’Nait e O’Palummiello, si recano dal dottor Fabio Della Ragione per risolvere una delicata questione. Il primo ha infatti sparato alle gambe dell’amico per una questione di lavoro, e il dottore cerca di rimuovere la pallottola mentre i due, evidentemente alterati, ridono e scherzano dell’accaduto.

Il sindaco del rione Sanità

I due sono solo i primi personaggi ad entrare in scena, ma il mosaico è molto più articolato. La mattina successiva infatti troviamo riuniti a casa di Antonio Barracano, detto O’Sindac, una sequela di personaggi che richiedono una consulenza con il distinto personaggio. Il sindaco è una persona estremamente influente nel rione Sanità, e chiunque si reca da lui per chiedere un aiuto, una grazia, o banalmente un permesso, specie per uccidere. Antonio Barracano è una sorta di deus ex machina, che decide con i suoi parametri morali sul bello e il cattivo tempo del quartiere.

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Senza il talento di Francesco Di Leva questo personaggio non sarebbe stato così perfetto.

La sua interpretazione istrionica fa sicuramente tesoro dell’esperienza sul palcoscenico dell’attore, che ha interpretato O’Sindac proprio sotto la regia di Martone nel 2017. Così intorno al suo personaggio si crea un gioco di ruolo articolato e frizzante, in cui riesce ad elevarsi come centro di una macchina teatrale orchestrata magnificamente. Difatti la trasposizione cinematografica di quest’opera non cambia le strutture profonde dell’opera; non ne intacca la grammatica teatrale.

Piuttosto il linguaggio del cinema è un valore aggiunto. Le didascalie si trasformano in sequenze descrittive dal montaggio rapido, in cui la Napoli licenziosa e paradossale che fa da sfondo alla vicenda viene dipinta con riprese aeree e ampie carrellate nelle strade. La macchina da presa non viene però relegata a un mero descrittivismo. Più importante, si fa interprete del sottotesto del copione originale, realizzando con i suoi mezzi espressivi ciò che in una regia teatrale non può essere messo in evidenza. Il montaggio di un dialogo, i movimenti di macchina centellinati, così come la possibilità di declinare l’ampiezza dell’inquadratura, sono sovrastrutture di un’opera che rimane di impianto fortemente scenico.

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Martone ci porta così nel suo personalissimo teatro.

La macchina da presa si sostituisce allo sguardo della cavea, senza violarne i limiti oggettivi. Così ci si trova di fronte a scene corali magistralmente dirette, e ad un utilizzo delle scene davvero di dimensione teatrale. La capacità di girare un’ottima opera rispettando e sfruttando gli spazi degli ambienti previsti è il segno di una visione del teatro estremamente rispettosa. Altrettanto, della capacità di fare del grande cinema, demandando tutta la resa della pellicola alla tensione drammaturgica che un’ottima direzione di attori capaci è in grado di restituire.