Il primo disco della colorata onda latina di Carlos Santana e soci suona ancora nuovo.
Era il 1969, e un gruppetto di sei scalmanati con a capo un tale Carlos Santana tornava trionfante da una monumentale esibizione al Festival di Woodstock. I Santana erano riusciti, ancor prima di pubblicare il loro album di debutto, ad incantare un milione di spettatori; il prossimo passo era entrare ufficialmente nel mercato discografico. Così vede la luce l’album omonimo Santana, pubblicato il 30 agosto 1969: un esordio tutt’altro che in punta di piedi.
L’operazione è più difficile di quanto non possa sembrare: i Santana, dopo aver trovato nel rock contaminato dalla musica tradizionale sudamericana la loro lingua, avevano bisogno di condensarla in un album, frenando il flusso incontrollato di idee e di note che avevano reso il proprio punto di forza. Un passo necessario per auto-educarsi alla composizione di un brano, ossia un’idea chiusa e chiara a tutti. Forse soltanto una mossa commerciale, forse anche la voglia di uscire dal circuito della musica popolare. Santana è un passo in avanti verso una fusione di due generi creati da culture diverse, spesso in contrasto fra di loro: è Storia anche questo.
I nove brani di Santana trasudano ancora un rock grezzo, che cerca di andare in centinaia di direzioni diverse e viene sempre rimesso in carreggiata.
Bill Graham, il manager della band, ha lavorato sul vero punto debole del gruppo: la tendenza alla jam session. Il lavoro di Santana e soci era prevalentemente strumentale, articolato su livelli paralleli ed equivalenti; un’impostazione mutuata dal jazz senza una stratificazione ragionata. Il tratto distintivo dei Santana, che li aveva resi capaci di infiammare Woodstock, costituiva un grande ostacolo per il lavoro in studio.
L’obiettivo di Graham era proprio abituare i Santana all’elaborazione di canzoni più convenzionali; non lineari, ma con una stratificazione intelligente dei livelli, che esaltasse ogni singolo strumento e facesse adeguare ciascuno al rispetto del proprio turno. “Se volete andare in radio,” – disse il manager – “avete bisogno di canzoni: un ritornello, una strofa”.
Evil Ways è una delle prime vere “canzoni” dei Santana; fu Graham stesso a proporre alla band di realizzare questa cover di un brano di Willie Bobo, e il gruppo decise di mettersi alla prova cercando di mettere da parte l’estro. Si inizia ad avvertire la nuova tendenza del gruppo a riordinare le parti strumentali in una struttura che lasci spazio alla voce.
Le parti vocali sembrano quasi incollate sul brano, a volte a forza (come in You Just Don’t Care, che sarebbe potuta tranquillamente sfociare in una splendida strumentale). Ha uno strano sapore di tentativo, non riuscito tecnicamente, ma che ha tolto ai giri a ruota libera dei Santana la scomoda nomea di “strumentali”.
Gli strumenti dei Santana ruggiscono come il leone in copertina.
Si torna addirittura in Messico con Jingo, che sembra anticipare i lavori successivi di Santana. Lo stile del chitarrista si fa intricato per poi distendersi a tratti, come nella limpida Persuasion o nel ricordo blues di Treat. Bill Graham ci ha provato, ma la verità è che ai Santana non serviva una voce.
L’unico modo per non invecchiare è segnare una svolta.