“Chi siete voi? Che cosa ne avete fatto di Alex Turner e compagni?”
Questo si saranno chiesti i fan degli Arctic Monkeys, quando il 6 luglio 2009 nelle loro orecchie si è riversata la colata di fluido nero delle chitarre di Crying Lightning. Un oscuro aperitivo per dare un assaggio di ciò che sarebbe stata la cena maledetta di Humbug, terzo disco degli Arctic Monkeys, uscito in Giappone il 19 agosto 2009 e in Italia il 28 agosto del 2009 per la Domino Records. Il disco ha impresso una brusca svolta alla carriera dei ragazzini di Sheffield, che fino ad allora sembrava lineare: tre-quattro album di un bel garage rock adolescente, svolta pop e poi valanghe di musica buona solo per sbronzarsi al pub; Humbug è il disco che ha fatto dire a tuttii fan, e anche agli Arctic Monkeys stessi: “Allora le chitarre possono fare anche questo”.
L’influenza più scura dell’indie, ad essere sinceri, era già emersa dalla musica degli Arctic: parentesi strumentali ammantate d’ombra come in Perhaps Vampires Is A Bit Strong But… dal primo disco Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not; e anche nel secondo disco, Favourite Worst Nightmare, pian piano il gruppo ha tentato di spruzzare di nero il suo rock Inglesissimo, che altrimenti sarebbe finito presto a riciclare riff e linee di basso.
Diventa una necessità per il gruppo rinnovarsi, per non andarsi a schiantare contro un muro invalicabile.
Gli Arctic Monkeys hanno avuto un merito enorme, che ha tracciato una netta separazione fra loro e la scena del pub rock britannico: comprendere la necessità di rinnovarsi per uscire dal circolo dei pub e maturare a livello musicale. La scelta è ricaduta, quasi spontaneamente, su un elemento già presente nella loro musica, una sorta di trasposizione in musica di Halloween, che andava studiato e approfondito. Insomma, erano bravi a fare le cose “oscure”, i ragazzi, ma non si applicavano abbastanza.
Fondamentale, nell’introduzione di tali sonorità , l’apporto di Josh Homme, dei Kyuss e Queens of the Stone Age. Lui è quello che, chitarra alla mano, tra anni ’90 e ’00 ha diffuso lo stoner rock, con i suoi suoni graffianti e distorti, genere al quale Turner e soci hanno cominciato, a questo punto, a guardare con sempre maggiore interesse. Interesse che tradisce, per forza, la volontà di una ricerca musicale più ampia, che appunto non si fermi ai limiti che i quattro si erano imposti finora.
Il disco non scende a compromessi, prendendosi le proprie responsabilità .
Lasciate da parte il mood festaiolo del primo disco: Humbug è tutto, maledettamente scuro. Non triste, ma scuro; un viaggio nei bassifondi della vita borghese e nei meandri della mente, come testimonia ad esempio il testo di Pretty Visitors. Gli Arctic Monkeys avevano tra i 23 e i 24 anni quando hanno scritto Humbug, e sicuramente per loro ha significato sforzarsi di approfondire le situazioni descritte nei due dischi precedenti: una quotidianità svilente, che passate le sbronze narrate nel primo disco diventa un ammasso di grigiore e routine. Anche questo significa “maturare”: andare a fondo, anche essendo consapevoli di addentrarsi in un mondo ben più cupo di quello al quale si era abituati. Rischioso, certo, ma necessario.
Le chitarre si completano, suonando insieme taglienti e avvolgenti, e sfruttando tutte le loro possibilità in fatto di tono: aperte e brillanti quando serve, con una vena psichedelica (My Propeller), chiuse e vibranti al momento giusto (Dangerous Animals). Il lavoro di sovrapposizione delle tracce stratifica in maniera perfetta le varie linee di chitarra, nelle quali si sente l’influenza di Homme soprattutto nei riff circolari e ostinati. Il basso vibra deciso in ogni pezzo, accompagnando anche la più tranquilla Secret Door, che ha il giro di accordi di Mardy Bum ma è così creepy da far quasi apparire Turner che ghigna malvagio davanti all’ascoltatore. Menzione d’onore, ovviamente, per quello schizzato di Matt Helders, che a vantaggio del disco placa la sua furia ma non si è assolutamente scordato come si suona la batteria, e lo dimostra nell’ipnotico bridge della già citata Dangerous Animals e nel pesante andamento di Potion Approaching.
“Humbug” significa “impostore”, e gli Arctic Monkeys devono passare per gli impostori del pub rock se vogliono diventare adulti.
Un disco che possiamo definire “maturo” e un rischio enorme affrontato con glaciale ispirazione.
Inizia ad essere fondamentale il ruolo della tastiera, che in brani come Pretty Visitors e The Jeweller’s Hand lavora decisamente meglio della chitarra per dare la giusta atmosfera al brano. Sfruttare al meglio strumenti che fino a quel momento erano stati di contorno è un’altra delle possibilità offerte dal lato oscuro dell’indie rock, che gli Arctic Monkeys hanno fiutato, compreso e utilizzato a proprio vantaggio.
Sicuramente, lo ribadiamo, questo disco è stata una sfida per la band; ma una sfida che non avrebbe mai vinto, se non fosse stata mossa anche dall’ispirazione. Gli Arctic Monkeys avevano bisogno di dare una scossa alla loro carriera e di vedere la realtà sotto un’ottica diversa, scrollandosi di dosso l’immagine adolescenziale; non è stata solo una mossa commerciale, per evitare di marcire nei bagni di un bar di Birmingham, ma la vera svolta di una band che ha bisogno di parlare di ciò che succede quando la festa è finita.