Tra i vari artisti che in quei 3 giorni di pace amore e musica sopperirono all'assenza dei Beatles, Richie Havens fu il primo. Il risultato fu unico e inimitabile.
Ma anch’egli aveva una richiesta: la partecipazione al festival doveva essere estesa anche al progetto parallelo di Lennon, condiviso con la sua compagna. La richiesta risultò assurda, dato che la Plastic Ono Band non era famosa neanche un centesimo rispetto ai Fab Four. Era però impensabile non portare su quel prestigioso palco le note della band che più di tutte segnò gli anni ’60. Fu così che oltre ad Havens, sia Joe Cocker che Crosby, Still, Nash & Young riuscirono a render loro omaggio con delle rivisitazioni destinate ad entrare nella storia della musica.
Coincidenze fortuite
Ma cosa permise ad Havens di accaparrarsi il posto d’apertura, risultando così il primo in quei giorni a rivisitare dei brani di Lennon e compagni? Ebbene gli Sweetwater, padrini dello psych rock, furono costretti a rinunciare alla prima esibizione cui erano assegnati a causa di un blocco della polizia sull’autostrada che li ritardò di molto. Gli fu perciò concesso di suonare due volte quella sera, e in entrambe le esibizioni portarono sul palco un celebre brano spiritual: Motherless Child.
Premiato dal caso, ancora una volta Havens aveva però anticipato i suoi colleghi, reinterpretando a sua volta questo brano e rendendolo unico. Meglio noto come Freedom, il brano in questione chiuse la sua esibizione. Vista la difficoltà di tirar fuori nuovo materiale – il pubblico aveva già chiesto ad Havens più di sette bis – il brano fu improvvisato lì al momento. Ciò nonostante, fu un’improvvisazione talmente azzeccata da entrare nella storia della musica e nella mente di numerosi giovani di oggi, fan di Tarantino (il brano è infatti presente nella OST di Django Unchained).
L’esibizione di Havens fu composta da 8 brani: 4 originali, 3 cover, e il già citato brano improvvisato. Non crediamo sia uno smacco per il cantante asserire che oltre a Freedom, i brani più riusciti furono proprio quelli dei Beatles. Si inizia con With a Little Help from My Friends, in realtà poco più che accennata dal cantante che si limita a canticchiarne la melodia con un classico “du-dirudu”, accompagnato dagli splendidi accordi della sua chitarra acustica. Più che un brano completo, risulta una sorta di ponte sonoro utile al pubblico per facilitargli il passaggio dai brani originali allo stupefacente repertorio di cover proposto da Havens.
Viene infatti la volta di Strawberry Fields Forever/Hey Jude, medley perfettamente strutturato che chiude la mandata Beatles proposta dal cantante afroamericano. Del brano psichedelico di Magical Mistery Tour, non rimane che lo splendido testo. Tutto il resto è abilmente stravolto da Havens e dai suoi accordi spasmodici, che accompagnano una voce tanto trascinata quanto trascinante per buoni 5 minuti prima di esplodere in un’altra melodia, stavolta accompagnata dagli applausi entusiasti del pubblico. La chitarra accelera, la voce cala di tono, un brevissimo silenzio..
Parte così il coro finale di Hey Jude, totalmente inaspettato, spezzato talvolta da incursioni del brano precedente. La caratteristica intrinseca di quel coro di aumentare di tono per poi ripetersi e attaccare col titolo del brano si sposa magnificamente con la conclusione calante di Strawberry Fields. La folla non può che apprezzare. È probabile che anche questo medley fu improvvisato lì per lì, tanto è inusuale. Ciò che è certo, è che non c’era modo migliore di realizzarlo.
È per questo che la sua voce roca penetra l’anima. Subentra anche la furbizia quando a quella voce ci accompagni melodie così note ed amate. Un altro fattore da non sottovalutare, che sommato agli altri costituisce quel tocco in più, quella caratteristica fondamentale che ha contribuito in maniera esemplare a far aleggiare sulle pianure di Woodstock l’ombra della band più importante di sempre: l’eterna ombra dei magnifici Beatles.