Nel 1989 usciva il quarto lavoro in studio dei Red Hot Chili Peppers.
Mother’s Milk può essere considerato sotto molti aspetti l’inizio vero e proprio della carriera dei Red Hot Chili Peppers. Quasi una rinascita, più che un inizio, poiché la band era rimasta orfana del chitarrista Hillel Slovak, morto di overdose del 1988. La prematura scomparsa dell’amico, fondatore del gruppo insieme a Kiedis e Flea, costrinse i due a reclutare nuovi musicisti, il che condusse alla formazione per eccellenza con cui tutti abbiamo amato alla follia i Red Hot. Dopo alcune comparse infatti i peperoncini si dotarono delle braccia poderose di Chad Smith e del talento universale di John Frusciante.
Il gruppo porge un postremo saluto a Slovak dedicando al caro compagno Knock me down, uno dei singoli più apprezzati dell’album. Un omaggio assolutamente sui generis, poiché invece di abbandonarsi ad una meditativa e profonda ballad in memoriami quattro regalano a Slovak un energico epitaffio, in cui la vena funk della band si esprime al meglio. Una poderosa sezione ritmica lascia spazio alle voci ben preparate di Kiedis e Frusciante, nonché a una traccia di chitarra volutamente di secondaria importanza, che lasciò a John ben altre occasioni per splendere.
E in effetti le qualità dell’album sono dovute al grande lavoro di Frusciante.
Le sue tracce di chitarra modellano di volta in volta il genere entro cui i peperoncini si muovono. La sua ricerca sul suono, che caratterizzerà tutti i suoi progetti musicali, è ciò che permette all’album di muoversi tra le diverse declinazioni tra il funk e il metal. Da Mother’s Milk i Red Hot inizieranno infatti una sperimentazione che li condurrà molto lontano rispetto al funk da cui ha preso le mosse il loro esordio. Non è quindi importante solo perché vediamo la formazione stabilizzarsi, ma perché si inizia a formare l’impronta stilistica del gruppo.
Il suono diventa allora la materia duttile su cui plasmare nuove idee: un concetto in continuo divenire. Non è elaborare il suono, ma il suono stesso ad essere variazione. La cover di Higher Ground, fortemente voluta da Stevie Wonder, ci parla proprio di questo. Il protagonista è il sound nella sua accezione più materica. La band, senza intervenire sulle strutture musicali, lavora sui timbri e sugli effetti, stravolgendo nei fatti il soul di Wonder portando il brano a tutt’altre rive. E quindi il suono non può che esplodere in una frenetica coda, unica sostanziale differenza nel titanico arrangiamento dei Red Hot.
Ovviamente il supporto di Flea e Chad in questi casi è fondamentale.
Nella stessa Higher Ground il loro apporto è decisivo. Il fraseggio dello slapping di Flea e il rigore esplosivo di Chad sono il complemento perfetto della chitarra di Frusciante. Tuttavia vi sono altri casi in cui il funk metal di Mother’s Milk non avrebbe potuto fare a meno di questi due formidabili musicisti. Punk Rock Classic, sfogo fulmineo e tagliente, non riesce a contenere i colpi scroscianti di Chad e le dita in fiamme di Flea, che incorniciano il primo di una lunga serie di soli memorabili di Frusciante. Molto interessante anche Magic Johnson, in cui Kiedis si abbandona ad un vero e proprio extrabeat su un arrangiamento ad elevatissimi bpm.
La voce del frontman lascia il resto del gruppo in Song that made us what we are today, traccia extra del disco che racconta esattamente ciò che Mother’s Milk rappresenta. Una lunga divagazione strumentale, un ricercare, come nel senso più antico del termine. Una riflessione sul suono, sulle combinazioni che si creano tra i tre, sui colori, sulle forme. Frusciante supera a pieni voti il suo primo banco di prova, Chad e Flea raggiungono la perfetta alchimia, e il gruppo è pronto alla consacrazione globale di Blood Sugar Sex Magik. Non avremmo mai avuto però un album come quest’ultimo senza Mother’s Milk.