Woodstock: perché è stato il più importante festival musicale di sempre

Analisi e importanza di uno dei più grandi avvenimenti del ventesimo secolo.

Woodstock
Nick e Bobbi Ercoline, la coppia sulla copertina originale della colonna sonora di Woodstock, pubblicata dalla Atlantic Records nel 1970.
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La colossale eredità del sogno di una generazione, riassunto in una sola parola: Woodstock

Il 1969 non è stato solo l’anno di Woodstock. Nella cultura occidentale, il Festival di Woodstock è stato anche l’apice e, per certi versi, il canto del cigno di tutta una cultura (anzi, contro-cultura) che era andata sviluppandosi ed emancipandosi per tutti gli anni ’60. Stiamo parlando naturalmente dei “capelloni”, gli hippies, i figli dei fiori. Giovani nati durante o attorno alla Seconda Guerra Mondiale, cresciuti con la poesia beat di Allen Ginsberg e con i racconti stralunati di Jack Kerouac; traumatizzati dall’omicidio in diretta di JFK, nel 1963; inorgogliti dal raggiungimento della Luna, ma al tempo stesso decimati dalla Guerra in Vietnam; segnati ma anche rinati grazie alle droghe psichedeliche, marijuana ed LSD. E infine, riscoperti a sé stessi con il rock and roll.

I Beatles, le chitarre distorte, i primi concerti negli stadi, gli amplificatori sempre più grandi e sempre più potenti, gli strumenti sfasciati dagli Who, i nastri riprodotti al contrario, la musica indiana. Woodstock è stato un po’ il simbolo e il culmine di tutto questo, ma non solo: perché il 1969 è anche l’anno della morte del sogno hippie. Sogno ucciso, con modalità diverse, dal film Easy Rider di Dennis Hopper, dagli omicidi della Manson Family, e dal Festival di Altamont, tenutosi a dicembre dello stesso anno. L’utopia di una generazione stava per soffocare nella violenza, nella droga (la cocaina, sostanza d’elezione degli anni ’70); complici, il declino della Guerra in Vietnam dopo l’Offensiva del Tet, e il crescente cinismo verso istituzioni e società. Woodstock ne fu l’ultimo baluardo.

Jefferson Airplane – Somebody to Love, Woodstock 1969

“By the time we got to Woodstock, we were half a million strong”

Woodstock durò tre giorni, dal 15 al 18 agosto 1969. Potremmo raccontarne la storia giorno per giorno, riproponendo la scaletta per intero; ma questo lascerebbe fuori molti dei momenti che fecero del Festival un evento senza pari. Non a caso, durante quella tre giorni, circolò la frase “The whole world is watching”, cioè “Il mondo intero sta guardando”: al Festival infatti non andarono in scena solo artisti musicali; bensì andò in scena, alla sua prova definitiva, un’intera alternativa sociale, un modus vivendi diverso, progressista, sognatore, utopista, che voleva dimostrare alle generazioni precedenti come gli esseri umani potessero effettivamente vivere tutti insieme in pace, armonia, amore. E la musica fu in qualche modo la corona di questa idea.

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Ci sono momenti epocali dei quai parlare: l’esibizione degli Who, che suonarono See Me, Feel Me esattamente mentre sorgeva il sole; l’assolo di batteria fuori dal mondo di Michael Shrieve, dei Santana; la versione acid soul, celebre, di With a Little Help from My Friends, interpretata da Joe Cocker. E poi, naturalmente, Jimi Hendrix, che chiuse l’evento: il momento in cui il chitarrista suonò l’inno Americano con la sua chitarra elettrica, imitando poi lo sgancio e l’esplosione delle bombe in guerra, sempre con il proprio strumento, fu un momento di catarsi assoluta: era “l’altra” America, e per certi versi l’altro “occidente”, che dimostrava che un mondo diverso era possibile, era lì, a portata di mano.

Sly and the Family Stone – I Want to Take You Higher, Woodstock 1969

“We are stardust, we are golden, we are billion year old carbon /
And we got to get ourselves back to the garden”

E anche il pubblico non era discorde: persone nude che ballavano sotto la pioggia, si abbracciavano, cantando insieme, celebrando la propria libertà, la propria felicità e capacità ritrovata di convivere e perseguire il bene comune senza egoismi. Certo, durò solo tre giorni, ma fu qualcosa di mai visto prima: che mezzo milione di uomini, donne e bambini potessero creare un insieme tanto felice, solo con cibo, acqua e musica, fu una sfida a tutte le convenzioni della società moderna per come si era evoluta fino ad allora. Né riguardò solo gli hippies: anche il fattore Max Yasgur, il proprietario del terreno, e la sua famiglia, furono coinvolti dallo spirito del Festival, offrendo cibo e acqua gratuitamente agli astanti. “Se ci uniamo a loro” disse poi Yasgur “Possiamo trasformare quelle avversità che sono il problema dell’America di oggi nella speranza di un futuro più pacifico e luminoso“.

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Tutto il Festival fu perciò permeato da questa speciale aurea di rivoluzione, cambiamento, raggiungimento di un’utopia: sembrava, in quei tre giorni, che davvero un mondo diverso fosse possibile, che il “sogno” famoso di Martin Luther King fosse realizzabile, che davvero gli esseri umani avessero imparato dai loro errori. Poi, come sappiamo, non è andata così. Ma l’eredità del Festival, eredità culturale e sociale, perdura nell’immaginazione collettiva, di generazione in generazione, attraverso canzoni, film, serie tv, libri, racconti di esperienze e cronache di una vittoria del genere umano. Semplicemente, è qualcosa che non si può dimenticare, un evento del quale bisogna ricordarsi, e parlare, ogni volta che la fiducia nell’essere umano viene meno.

Perché se Woodstock c’è stato non vuol dire che non possa ripetersi, magari in forme e modalità diverse: c’è ancora tempo.

Jimi Hendrix – The Star-Spangled Banner, Woodstock 1969

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