Talking Heads: quarant’anni di Fear of Music

Dopo più di trent'anni dal loro scioglimento, rendiamo omaggio ai padrini della New Wave con la recensione di Fear of Music, a 40 anni dalla sua uscita.

Talking Heads
Talking Heads - Fear of Music, 1979
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”This ain’t no party”

Parlare dell’album che costituisce la svolta creativa di una delle band più importanti della storia della musica non è affatto semplice. Sopratutto se si tiene conto della loro evoluzione. Il disco d’esordio, Talking Heads ’77, dimostrò subito al mondo che nonostante il sound ancora molto grezzo, la band Newyorkese era in grado di sfornare ottimi singoli da rendere commerciali tramite radio e compagnia bella. Si trascinarono dietro questa peculiarità anche col disco successivo, More Songs About Buildings and Food, primo loro disco ad essere prodotto dal genio visionario di Brian Eno.

Egli in effetti ci aveva visto lungo sulla band di David Byrne, e nel suo ottavo disco inserì una canzone le cui sonorità intuirono la futura svolta del gruppo che all’epoca aveva esordito da appena due mesi. Con la sua produzione in effetti i Talking Heads fecero un notevole passo avanti, ma fu nel marzo del ’79 che decisero di trasformare quel passo in un enorme balzo chilometrico.

2 settimane coi cavi in salotto

Stanchi di essere considerati dei meri sforna-singoli si chiusero in studio provando a cavare il proverbiale ragno dal buco, fallendo nel tentativo. Decisero di spostarsi nell’appartamento del batterista e della bassista, Chris Frantz e Tina Weymouth, che convivevano già da un paio d’anni, e da un furgone di un tecnico del suono vennero srotolati decine di cavi elettrici che vennero fatti passare dalla finestra. Questi cavi rimasero lì dal 22 aprile fino al 6 maggio, periodo in cui la band, sotto la supervisione di Eno, buttò giù le tracce base del nuovo disco.

Non mancarono le diatribe tra Byrne e gli altri membri sulla rotta da seguire nei testi, stavolta privi dei riferimenti sociologici del disco precedente e permeati da una sociopatia distopica. Le idee di Byrne ebbero fortunatamente la meglio, così egli poté parlare liberamente di omnifobia. L’oppressione dell’aria che respiriamo, la frustrazione data da un normale pezzo di carta e la paura più temibile di tutte, quella che dà il nome al disco: la paura della musica.

Talking Heads – Life During Wartime, da Stop Making Sense, 1984

”This ain’t no disco”

Concluse le registrazioni casarecce e quelle professionali, il disco era finalmente pronto per la pubblicazione mondiale, accordata per il 3 agosto. Per la copertina, la seconda chitarra Jerry Harrison (prova definitiva che con questo cognome sarai il più sottovalutato della tua band) propose un total black con dei piccoli rilievi simili a quelli presenti negli armadi nascondi-cavi. Germe di quello che oggi sembra più che altro un tombino, probabile simbolo della chiusura mentale dei protagonisti dei testi di Byrne.

Al di là delle congetture sulla cover, la prima vera cosa che colpisce dell’LP è la frenesia tribal disco della prima traccia. L’agitazione emotiva della band – che al tempo della scrittura del brano era combattuta tra il successo e la realizzazione artistica – qui si traduce perfettamente in musica. I Zimbra è infatti convulsamente sincopata e attraversata da quella poliritmia che caratterizzerà il disco capolavoro Remain in Light, dell’anno successivo.

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La poesia del dadaista Hugo Ball, ispirazione per il testo di I Zimbra.

La grande trovata di Eno per donare un tocco inconfondibile a questa canzone fu il coinvolgimento del collega e amico Robert Fripp, assai più noto come l’eclettico chitarrista dei King Crimson, ma che collaborava col produttore già dal ’73. A partire dal minuto 2:01, è possibile ascoltare un inconfondibile riff che sembra uscito direttamente dal disco capolavoro dei KC, Discipline, uscito solo due anni più tardi. Con la seconda traccia (solitamente quella che contiene la summa artistica di un intero disco) Byrne decide che ”ha bisogno di qualcosa per farti cambiare idea”.

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”This ain’t no fooling around”

Mind risulta quindi più sommessa della precedente e incede con fare ipnotico fino ad un minuto dalla fine, quando delle prorompenti schitarrate irrompono sull’incessante bordone della tastiera e gli slide del basso della Weymouth. Nella versione rimasterizzata del 2005 è presente una versione alternativa che gli amanti degli urletti di Byrne non potranno disprezzare.

Come già accennato, nel mondo di Fear of Music anche i normalissimi pezzi di carta possono generare frustrazione. È il caso di Paper, dove la frustrazione è data da un bizzarro parallelo tra l’oggetto e una travagliata storia d’amore, tra arpeggi pieni e corposi e una foga quasi punk, sottolineata dalla breve durata (la più breve del disco).

Talking Heads – Heaven, da Stop Making Sense, 1984

L’era del ”guerrigliero antieroico”

Persino trovare casa risulta un impresa titanica per i personaggi creati da Byrne. In Cities, per l’appunto, questa frustrazione si traduce in chitarre distorte e basi electro funk che destabilizzano l’ascoltatore come nelle migliori canzoni di Sandinista. Anche qui una versione alternativa del 2005 ci propone una resa più graffiante del cantato, anche con qualche parola in più rispetto alla versione più nota. Possiamo quindi supporre che queste fossero le prime versione mai realizzate ed in seguito ritoccate.

Il tentativo di non farsi di nuovo riconoscere come sforna-singoli gli si ritorce contro i Talking Heads con la traccia successiva: Life During Wartime. Questa hit senza tempo cela all’interno del suo ritornello trascinante e dei suoi ritmi travolgenti una sottile profezia sul decadimento della civiltà occidentale.

I guerriglieri, urbani ed antieroici, si ingozzano di burro di arachidi e ascoltano incessantemente fatti di guerra, aspettando che essi gli arrivino alla porta. Riproposta sempre nel 2005 con delle “smitragliate” di chitarra di Robert Fripp – perfettamente in tema – ed un accordo finale di tastiera che ti lascia di stucco, Life During Wartime è l’unico pezzo di Fear of Music (assieme ad Heaven) presente nel grandioso film-documentario Stop Making Sense. Le riprese sono tratte dal live omonimo della band e curate niente meno che dal regista Newyorkese Jonathan Demme (Il silenzio degli Innocenti, Philadelphia, The Manchurian Candidate… )

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Nel disco Vivid dei Living Colour è presente una cover di Memories Can’t Wait,
sesta traccia di Fear of Music.

Dalla musica ”suonata” a quella ”miscelata”

Life During Wartime è la penultima traccia del lato A del disco, ed il suo testo è la versione ignava di Listening Wind, splendida canzone di Remain in Light in cui le conseguenze della guerra si leggono chiaramente. È però con l’ultima traccia prima del lato B che la distanza tra terzo e quarto disco si fa praticamente nulla. È il caso di Memories Can’t Wait, traccia permeata di quella sottile cupezza che attraversa il disco successivo. Suoni miscelati, dilatati, sfibrati e in un certo senso “corrotti” dal mixaggio
post-prodotto che sovrasta la forma suonata.

Con Air si torna momentaneamente al registro precedente: per le nuove frontiere del sound si deve aspettare nuovamente qualche traccia. In ogni caso, il brano non delude e ci proietta in un mondo di rimandi Brechtiani, tra malinconia, cori eterei, e una forte critica all’inquinamento del pianeta. Arriviamo ora al pezzo più toccante di tutto il disco, forse l’unica vera ballata mai scritta dai Talking Heads. Heaven è un pezzo struggente con un giro di chitarra del tutto inusuale ma che ben si sposa con l’inarrivabile basso della Weymouth e il leggero delay vocale del ritornello.

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C’è un bar che si chiama ”paradiso”, e dentro, non vi accade nulla. La semplicità di questa canzone lascia storditi per quanto è irreplicabile. Solo la cantante Q Lazzarus è riuscita a farne una bella versione, presente nel film Philadelphia. Nulla a che vedere con la splendida versione acustica presente in Stop Making Sense ma comunque di grande effetto. È invece sconsigliatissimo avvicinarsi alla versione stra-rallentata dei Simply Red.

Le ultime tracce

Non sarebbero i Talking Heads se dopo un brano così relativamente semplice non spuntasse fuori un delirio qual è Animals. È una delle tracce più particolare del disco, già dal testo che parla appunto di animali che defecano per terra e quant’altro. Idealmente diviso in tre parti, con verso e ritornello che si susseguono velocissimi senza combinarci qualcosa l’un con l’altro. Con un outro che risuona come una nenia indigena, il brano è un amalgama straniante condito da una fine percussione digitale.

Con la seguente Electric Guitar, Byrne vuole definitivamente prendersi gioco di noi. Ci si aspetterebbero degli assolo, ma non c’è tempo per le svisate quando si sta scrivendo la storia. Sulla scia della traccia precedente, la band sceglie la strada del perturbante: le aperture in maggiore lasciano il posto alle tensioni in minore senza che ce ne accorgiamo, eludendo gli schemi classici in un’atmosfera concitata.

Il disco non potrebbe chiudersi in maniera differente rispetto a Drugs. Risulterebbe un disco totalmente sbagliato. Perché quando pensi che i Talking Heads abbiano dato il massimo per 35 minuti, ti colpiscono alle spalle con un brano che sembra estratto dai duetti di Byrne & Eno, tassello fondamentale di un’avanguardia spacciata per pop.

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Talking Heads, 1979

Considerazione finali

La band riesce sapientemente a convertire in musica le parole di Byrne, e questo è ormai assodato. Ma mai come in questo disco la cosa riesce alla perfezione. Il campionamento, risulta la maniera più efficace per esprimere l’effetto psicotropo e la sospensione del reale. Sarà poi l’incursione del funky a farci ricadere coi piedi per terra. Lo stesso funky che troviamo contaminato dal tribale nella traccia mai inserita Dancing for Money, addirittura anticipatrice dello stile acquisito da Speaking in Tounges in poi.

Questa è in soldoni tutta la magnificenza di Fear of Music. Disco cardine nella carriera dei padrini della New Wave in cui scelgono di adottare un processo graduale: dal funky pulito del secondo disco, alle vette inarrivate dei mixaggi di Remain in Light. Tutto in unico fantastico calderone. Un concentrato di divertimento e meditazione che tra le infinite produzioni mai create si piazza altissimo, in una posizione mediana tra ciò che è stato il pop e ciò che non sarà mai.

Talking Heads – Fear of Music / Anno di pubblicazione: 1979 / Genere: New Wave

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