Una intensa seduta di meditazione nella cornice del Castello Scaligero, guidata da Vernon.
La capacità di staccarsi totalmente dalla società e infilarsi nel proprio mondo è criticata se non si è nessuno ed esaltata se si è una star. L’impeto artistico dei Bon Iver, per gli amici Justin Vernon, però, è generoso: separatosi dallo star system, tiene così tanto alla bolla allucinata del suo personale mondo da volerci far entrare tutti dentro, e noi abbiamo accolto l’invito.
Al Castello Scaligero di Villafranca di Verona, il 17 luglio, eravamo in circa 9000 a voler entrare nella bolla dei Bon Iver, tutti con la paura di far scoppiare quella stessa bolla. Nessuna band di apertura, fra le mura perimetrali del castello, al centro del prato, c’era solo il palco e sopra di esso chitarre, synth, microfoni e soprattutto due batterie. Quel palco, stagliandosi contro il cielo che già iniziava a screziarsi di rosa, era un simbolo. Come i segni bianchi su fondo nero sul display del palco, numeri che rappresentano i titoli delle canzoni dell’ultimo album della band 22, A Million. Justin Vernon e i suoi seguaci si divertono a confondere, a disseminare di indizi il loro percorso. Quando salgono sul palco, però, all’improvviso diventa tutto chiaro, a patto di essere disposti a far lavorare l’immaginazione.
Ogni brano dei Bon Iver sembra un rito di iniziazione.
Sembra davvero di trovarsi di fronte ad una setta, non appena Vernon e compagni aprono il concerto con Perth che inizia lenta e finisce solenne, accompagnata dalle due grancasse della batteria in sedicesimi. I musicisti sul palco sono cristallizzati, Vernon dal suo metro e novanta di altezza ha gli occhi socchiusi e non canta, prega, staccandosi dalla musica che suona. Non per rinnegarla, al contrario: se ne separa per comprenderla a fondo e restituirla agli spettatori pura e libera da condizionamenti.
Il concerto si srotola in una climax ascendente di sacralità , arrivando all’acme con la magniloquente Holocene e, dopo una pausa di circa 20 minuti (“We need to take a break” sussurra Vernon, quasi scusandosi), una intima versione chitarra acustica e voce del capolavoro che è Skinny Love. La svolta elettronica della band, ormai messa in atto da qualche anno, li ha presi a tal punto da riuscire ad infiltrarsi anche nei pezzi dei due dischi precedenti, che hanno fluttuato su una piattaforma di synth, forse preannunciando la linea del nuovo album. Si ferma tutta la folla, quando Vernon attacca con la cover di Chelsea Hotel #2 di Leonard Cohen.
Democrazia artistica, o democrazia emotiva: decidete voi.
Il concerto si chiude, nell’attonimento generale, con il fragore del temporale di tastiere di 22 (Over S∞∞n) e Vernon che, in un’ultima smisurata preghiera, unisce le mani e socchiude gli occhi. Il concerto dei Bon Iver è estremamente democratico: ognuno può leggere quello che vuole fra le parole, a costo di staccarsi completamente dalla realtà e fissare per due ore il palco, a bocca aperta, lasciando le orecchie in balia dei cinque, pronti ad accarezzarle con riarrangiamenti magistrali come quello di Towers o a distruggerle con 10 dEATh bREasT. Le scenografie sul fondo del palco aiutano a non dare punti di riferimento, una raccolta di scenari allucinati che ognuno può modellare, ancora una volta, a suo piacimento.
La seduta spiritica di Bon Iver si conferma una delle esperienze più singolari che possiate fare ad un concerto: rimanere a bocca aperta dall’inizio alla fine, a prescindere dal fatto che lo amiate o che vi sia indifferente. Paradossalmente, è un concerto (e forse è riduttivo definirlo così) per tutti, ammesso che siate disposti a staccarvi da qualsiasi concezione di “musica”.