Ogni appassionato di cinema conoscerà (si spera) la carriera del maestro Pupi Avati. Una carriera variegata e prolifica che ha toccato un ampio spettro di generi. A partire, in tutti i sensi, dall’horror di marca profondamente gotica. Da Balsamus a Zeder passando per il cult La Casa Dalle Finestre Che Ridono. Ma anche drammi come Il Papà Di Giovanna o commedie come Gli Amici del Bar Margherita. Fino ad arrivare agli ottanta anni compiuti ed Il Signor Diavolo nella filmografia. Un giro lungo più di cinquant’anni che riporta il regista bolognese a parlare del maligno per eccellenza. La cornice è sempre la stessa, la Pianura Padana dove, come ci dice il regista, “il tempo sembra essersi fermato“. Zone rurali dove tutto è rimasto com’era, senza alcun balzo in avanti.
Siamo nel 1952, c’è una culla con una bambina. Si apre una porta ed un ragazzo deforme entra nella stanza per divorare la neonata. Gocciola il sangue sui titoli di testa di un film che fa già capire a cosa andremo incontro. L’Italia è quella del post secondo conflitto mondiale, ci sono le elezioni e nessuno vuole perdere. Men che meno la Democrazia Cristiana che rischia di vedersi soffiare un bacino di voti notevole. Il Ministero decide di mandare l’ispettore Momentè (Gabriele Lo Giudice) ad indagare su un caso particolare: un omicidio causato dalla superstizione, a detta della madre della vittima. Apparentemente aizzato da un prelato ed una suora, Carlo (Filippo Franchini) avrebbe ucciso Emilio (Lorenzo Salvatori), convito che fosse il diavolo. Anzi, il Signor Diavolo, giacché il male va sempre trattato con rispetto.
Il film si apre con un lungo interrogatorio subìto da Carlo, che ci racconta i fatti accaduti con annesse motivazioni. Lunghi flashback che si uniscono alla lettura delle carte durante l’infinito viaggio in treno di Momentè. Con questo espediente, Avati riesce ad ordinare perfettamente l’intreccio fino a far unire i due tempi nel presente filmico. Iniziano così le indagini, fatti di tentativi ed omertà. Ed una serie di eventi a dir poco sconvolgenti che metteranno a dura prova ogni forma di razionalità. Perché il male si annida ovunque, anche dove nessuno si aspetta. Soprattutto dove il tempo sembra essersi fermato.
Con Il Signor Diavolo, Pupi Avati ritorna alle sue origini primordiali, quelle del cinema di genere. E lo fa con un colpo da maestro, scrivendo prima il libro omonimo e poi la sceneggiatura, insieme al fratello Antonio ed al figlio Tommaso. Infine, dando una marca autoriale riconoscibile sin da subito. In primo luogo, per l’utilizzo di attori a lui sempre cari e fedeli come Lino Capolicchio. In secundis, riprendendo le ambientazioni che da sempre hanno caratterizzato i suoi horror. Terzo punto, non da meno, l’inserimento del gotico attraverso le figure sacrali. Tre caratteristiche che fanno capire subito il genere e l’autore che andremo a vedere. Cosa non facile e che ad oggi è riuscito a ben pochi maestri, quali Argento e Fulci.
Avati però inserisce anche molto del suo personale, mettendo in scena le (sue) paure ataviche. Quelle di un quindicenne timorato da Dio che faceva il chierichetto, schiavo di un cattolicesimo superstizioso. In tal senso, Il Signor Diavolo mostra anche questo attraverso un gioco basato sui particolari come colonna portante del film. Calze smagliate, forfora, confetti su un tavolo, sudore. Gesti e oggetti che rendono verosimile l’inverosimile e che aumentano il grado di tensione di tutto il film, accompagnato da una fotografia gelida come poche. Una fotografia che esalta i toni scuri, ancor di più amplificati con un oppressivo uso del grandangolo che rende le inquadrature a tratti caratteristiche del cinema espressionista tedesco. Non siamo di fronte al tipico horror convenzionale a stelle e strisce. L’atmosfera opprimente si respira per tutto il film, fino ad un finale coerente con la claustrofobia che Avati riesce a restituire.
Il gotico padano di Pupi Avati continua a scavare nella melma paludosa di una zona d’Italia a lui sempre tanto cara. Lì, dove il tempo si ferma e dove tutto rimane invariato. Dove la scaramanzia, la paura dell’ignoto, vagano a piede libero tra le menti dei popolani, schiavi di quell’istituzione ecclesiastica non sempre cristallina. Il patto tanto agognato da Avati tra regista e spettatore, trova forma e rispetto in questo Il Signor Diavolo. “Chi paga un biglietto per vedere un horror, vuole avere paura. Questo è il patto tra regista di genere e spettatore“. Ebbene, ci è riuscito anche stavolta.