Prima di addentrarci nella recensione della terza stagione di una serie già diventata icona come La Casa di Carta 3, è doveroso fare alcune premesse, e sul mondo Netflix, e sull’universo della banda capitanata dal Professore.
Brevemente, in primo luogo, la piattaforma streaming più famosa al mondo sta mettendo in atto un processo di decostruzione. Ossia, in altre parole, riscrivere un determinato tipo di immaginario. Chiaro esempio, i teen drama originali Netflix come Tredici, Riverdale e il remoto-sequel di Sabrina. Un’accezione quasi completamente diversa del genere. In secondo luogo, Netflix ha de facto tolto ancor più pubblico televisivo. E non gli basta. Ha visto in La Casa De Papel, trasmessa da Antena 3, una serie con del potenziale. L’ha presa e ribaltata, formandola a sua immagine e somiglianza. Due stagioni, puntate spezzate in due. I cliffangher delle pause pubblicitarie dell’originale, diventano così un punto e a capo, verso la prossima puntata.
Detto questo, ecco che il long take iniziale di La Casa di Carta 3 inizia ad avere un senso ben ampio. Arturito cammina veloce dietro le quinte di un teatro. Non c’è tempo per il trucco. Si apre il sipario, “Inizia lo show“, dice illuminato da fari rossi (stesso colore di…?) e guardando verso di noi spettatori. La Casa Di Carta appartiene interamente a Netflix, adesso il linguaggio seriale passa da quello televisivo a quello dello streaming. La banda si deve riunire, Rio è stato scoperto ed è tenuto prigioniero. Il Professore deve trovare un modo per farlo evadere. L’ennesimo piano ben architettato porterà la banda con la maschera di Dalì a rincontrarsi a Madrid. Alla BancadiSpagna, l’istituzione economica spagnola per eccellenza. Novanta tonnellate d’oro e molto altro da trafugare. Con la differenza che, questa volta, l’appoggio popolare già è ben radicato.
Dopo la prima rapina, tutti i protagonisti sono diventati delle vere e proprie icone. Nella realtà come nella finzione. In tal senso, assistiamo ad una seconda rottura della quarta parete, molto particolare. Il Professore mostra a tutti i componenti una serie di immagini che ritrae manifestati e subculture usare la loro tuta rossa, con annessa maschera, durante ogni forma di manifestazione. Serie di immagini che rispecchiano la realtà. Immagini di repertorio come quella dei tifosi francesi ed il loro striscione ritraente il volto stilizzato di Salvador Dalì. Icone vere e proprie. Da qui, ci sarà l’ennesimo scontro con la polizia ma senza una negoziatrice come lo era stata Raquel Murillo. Il piano è più complicato e pericoloso con Alicia Sierra dall’altra parte del microfono. Lei, l’aguzzina di Rio. Lo scontro sarà totale.
Unendo le premesse di cui sopra, possiamo quindi notare come La Casa di Carta 3 rispecchi a pieno l’identità Netflix, ossia quella di voler decostruire e rilanciare un immaginario. Acquisendo questo franchise, quasi un brand, Netflix ha preso con sé un fenomeno di massa, modellandolo secondo i suoi canoni ma senza mai abbandonare le precedenti icone storiche. Ed all’inno partigiano italiano per eccellenza, ecco You’ll Never Walk Alone al suo fianco. E la cosa piace al pubblico. Al punto che quella ribellione filmica, diventa fonte di ispirazione per molti manifestanti oggigiorno. Senza addentrarci in questioni politiche circa l’etica di usare Bella Ciao in questo modo, è un dato di fatto che La Casa di Carta 3 è il risultato della richiesta di molte persone.
In tal senso, la terza stagione è costruita come un fan-service, dove sono molte le situazioni analoghe. Con alcune sfumature importanti, soprattutto nei personaggi. Menzione speciale, per questi ultimi. La loro chimica è a dir poco perfetta, al punto da sembrare una compagnia teatrale (non) dilettantesca composta dagli amici di una vita. La credibilità dell’interpretazione, insieme ai colpi di scena, riescono a mettere da parte anche quelle stonature eccessivamente kitsch. Di conseguenza, La Casa di Carta 3, inizia ad addentrarsi nel passato, con numerosi flashback ritraenti Berlino, fratello del Professore. Lui, edonista e narcisista, in un monastero di Firenze, con Palermo a progettare e perfezionare i piani. Si passa dal presente al passato, si mostrano i perché dietro alle scelte. Introspezione psicologica che darà un ritratto molto più pulito del Professore.
Non da meno, trova piena consacrazione la volontà di decostruire l’immaginario legato alla soap ed al thriller. Generi agli antipodi, ovviamente, ma qui ben dosati tra loro. Le storie d’amore, il dramma, vanno a spezzare il ritmo un po’ alla volta. Anche per dar respiro a quella nuova figura sociale che sta venendo fuori, il bingewatcher (colui/colei che guarda stagioni intere e non semplici puntate).
Non sarà la stagione perfetta di una serie perfetta ma rimane un fenomeno di costume a larghissimo uso e consumo, perfettamente gestito in tutto e per tutto. Un salto in avanti, a livello teorico, che porta Netflix ad aver pienamente compreso ciò che il pubblico vuole. E sa come impacchettarlo e regalarlo. Pur non trovandoci di fronte ad un Twin Peaks a livello qualitativo e di importanza per il medium televisivo, (anche) La Casa di Carta 3 racchiude il motivo per cui Netflix esiste. E ne siamo ben lieti. Ora attendiamo la quarta con trepidante attesa, anche grazie al malefico cliffangher finale che ci farà attendere comunque troppo tempo. Che inizi la guerra. E il sipario si chiude.
Piccola nota a margine: il fatto che ci sia una componente soap non deve essere oggetto di denigro. La soap è stato il primo esempio di sceneggiatura verticale. In altre parole, senza di essa non avremmo mai avuto le serie TV per come sono concepite oggi.