La trama potrà sembrare banale, se raccontata. Ma se al cosa si sostituisce il come, ecco che la percezione cambia totalmente. E anche l’apparente banalità della trama diventa, appunto, solo apparenza. Oscillando tra grottesco ed elementi comedy, Midsommar – Il Villaggio dei Dannati presenta una struttura molto sofisticata, che ha la pretesa di ragionare sul cinema horror contemporaneo e le sue contaminazioni, insieme alla divisione netta che c’è tra il commerciale e quello più underground. Una divisione messa in scena durante una delle sequenze più d’impatto di tutto il film e che non sveleremo per non rovinarvi l’infausta sorpresa. Basti sapere che la sua costruzione è emblematica. Un inquadratura dall’alto vede gli abitanti della comune fermi impassibili. E in questa sequenza, dove domina il bianco, si muovono come formiche i protagonisti americani in preda alla paura per quanto accaduto.
Ari Aster riesce ad esasperare la recitazione di Florence Pugh così come fece con Toni Colette. I suoi pianti e la sua mimica facciale, osservata da vicino con moltissimi primi piani, esaltano l’attrice già vista in The Little Drummer Girl di Park Chan-wook. La sua disperazione diventa la nostra disperazione, i suoi incubi, i nostri incubi.
Quello descritto da Midsommar – Il Villaggio dei Dannati è un mondo surreale ed onirico, dove la fotografia splendente è dicotomica rispetto quanto si vede.
Ogni evento a cui assistiamo, una volta che i protagonisti giungono in Svezia, accade sotto la luce del sole. Non c’è più il buio ad assistere la messa in scena ma un sole perennemente splendente, come accade d’altronde nell’estate dei paesi nordici. Un’idea visiva che tende ad estraniare lo spettatore sin dal principio. La notte diventa l’unico momento in cui tutto si ferma e nessun mostro interiore viene a galla, nemmeno simbolicamente. L’antitesi dell’horror. Non mancano certo le citazioni, anche se indirette. Se in Hereditary si può riscontrare Sussuri E Grida, per stessa ammissione di Aster, qui ci troviamo di fronte ad un vero tripudio. Il fuoco di Sacrificio di Tarkovskij, le urla dell’Adjani in Possession, la danza evocatrice del Suspiria di Guadagnino, Che Cosa Sono Le Nuvole? di Pasolini.
Il montaggio è ridotto al minimo indispensabile. Moltissimi i long take e anche di pregevole costruzione. Come ad esempio la memorabile discussione tra Dani e Christian, a telecamera fissa, sfruttando uno specchio. Intuizioni registiche geniali che prevedono sempre inquadrature perfettamente speculari e studiate al millimetro. Non di meno, i virtuosismi che Aster fa con la macchina da presa: movimenti che riescono ad annullare lo spazio ed il tempo, catapultandoci da un luogo all’altro ed in giorni diversi. Ci si potrebbe scrivere un intero saggio su Midsommar – Il Villaggio dei Dannati, analizzando ogni singola inquadratura e sequenza. Non di meno, si potrebbe parlare anche del finale da capogiro ma per godersi il film è meglio non fare spoiler.
Con Midsommar – Il Villaggio dei Dannati, Aster continua con la sua idea di horror partendo sempre dall’orrore tangibile da tutti noi, quello del dramma familiare, per poi andare verso quello più onirico-esoterico. E se in Hereditary si è usato il possession movie, in Midsommar – Il Villaggio dei Dannati viaggiamo nel folk-horror ma senza cambiare la costruzione filmica, quanto più la messa in scena. Ambedue i film sono caratterizzati da particolarissime aperture che distaccano lo spettatore per poi farlo immergere nella storia immediatamente. Colpi di genio narrativo-stilistici che consacrano Ari Aster come regista di film che riscriveranno il genere. Dopo Jordan Peele, gli amanti dell’horror avranno le spalle coperte. Speriamo per molto tempo ancora.