Debut, di Bjork, è uno degli esordi più originali e significativi mai effettuati da un’artista femminile.
Debut, come ben si sa, non è il vero album di debutto di Bjork, e questo nonostante quanto suggerisce il titolo. Il suo primo album, infatti, venne pubblicato nel 1977, quando la cantante aveva solo undici anni, ma già mostrava promettenti doti canore. Crescendo, però, Bjork Guðmundsdóttir è andata molto più in là, trasformandosi non solo in una cantante eccezionale, ma in una delle artisti femminili più originali e significative di sempre.
Non stiamo esagerando: basta ascoltare una serie di nomi contemporanei, da St. Vicent a Susanne Sundfør, da Grimes a Billie Eilish, per constatare l’immensa influenza che la cantante ha portato. Un vero e proprio modo alternativo, per le artiste donne, di fare musica, senza trasformarsi in popstar all’acqua di rose, ma senza neppure nascondersi per forza nei meandri del rock alternativo, come PJ Harvey o Liz Phair.
Questo è, in breve, ciò che Bjork costruisce nel suo primo album ufficiale: un approccio alla musica di certo in precedenza inedito per il genere femminile (anche se molte vi si erano avvicinate: Kate Bush, Joni Mitchell…). Però il modo in cui Bjork lo fa è assolutamente originale, e incide a fuoco quegli anni ’90 già così concitati.
Una cantante che fa dell’originalità il proprio punto di forza.
Debut, uscito nel 1993, presenta un’artista a tutto tondo, già sicura di sé e conscia delle proprie capacità e delle proprie possibilità. Lo provano alcune tra le canzoni migliori della sua carriera, che si ritrovano tutte in questo album: Human Behaviour, Crying, Venus as a Boy, One Day, Come to Me, Violently Happy. E naturalmente Big Time Sensuality, una delle più belle canzoni electropop mai registrate.
Per tutto il disco, Bjork oscilla tra trip hop e alternative rock: atmosfere cupe, basi elettroniche e ritmi sincopati. La sua voce colora il tutto, sempre, ma si sente che non è tutto lì: è lei, infatti, l’autrice della maggior parte dei pezzi che sentiamo, e pur non aspirando ancora al grado di introspezione che ritroveremo in album successivi, come Vespertine (2001), già qui ci mette tutta sé stessa.
Una fusione di elementi che è tutto e niente, ma sempre al servizio di ciò che Björk vuole esprimere.
Le sue vocalità sono a volte piacevolmente pop, candide e misurate; poi, da un momento all’altro, sembra quasi voler stonare apposta, senza tuttavia riuscirci (non crediamo che ne sarebbe in grado, neanche volendo). Queste deviazioni vocali simboleggiano la sua personalità artistica inquieta: Bjork è decisa a capire cosa non va nell’essere umano, e sa che non può farlo se non de-costruendo la sua stessa arte, sia vocale che strumentale.
Infatti, con gli album successivi (specie da Homogenic, 1997) la cantante affronterà un progressivo percorso di astrazione, che la porterà a spingersi sempre più in là e ad imporsi ogni volta di più come la voce (femminile) fuori dal coro per eccellenza. Ancora oggi, è impossibile collocare Bjork in un genere, legarla ad una scuola o a una scena precisa. Detto molto banalmente: lei è unica, e già Debut prova appieno come la musica che produce sia tra le migliori e più originali della contemporaneità.