Dieci anni fa moriva il re del pop, una delle icone del ventesimo secolo: Michael Jackson.
Verrebbe da domandarsi: cosa diranno di Michael Jackson tra cento anni? Come verrà ricordato? Come cantante, performer, artista, intrattenitore, enfant prodige, ballerino? O come simbolo di un’emancipazione, quella afro-americana, tanto sociale quanto culturale, iniziata negli anni ’60 e giunta all’altro capo del cerchio negli anni ’80, con un artista di colore in cima alle classifiche mondiali?
Oppure: Michael Jackson verrà forse ricordato come icona centrale di una rivoluzione mediatica. Rivoluzione che ha ucciso le radio (e le loro “stelle”, come nella famosa canzone), completando il processo di centralizzazione dell’immagine, iniziato già a metà ‘800, giungendo a quella emittente, MTV, che ha cambiato il concetto di video musicale.
Questa è stata infatti la baraonda di cambiamento nella quale Jacko si è trovato coinvolto, quasi sempre senza rendersene conto, spintonato qua e là da esigenze di mercato, hit da classifica, scandali più o meno sminuiti, e una personalità troppo grande, troppo delicata e troppo sensibile per sopportare tutto questo.
Provate a pensare a cosa sarebbe stato Michael Jackson se fosse vissuto, per esempio, negli anni ’50, quando i video musicali praticamente non esistevano, la tv era agli inizi e lo stesso mercato discografico mondiale, nell’epoca pre-Beatles, era ancora qualcosa di ridotto, di poco eclatante. Certo, magari avrebbe avuto comunque un grande successo, come lo ebbero per esempio James Brown o Ray Charles. Ma bisogna dirlo: è stata l’immagine di Michael a fare la sua fortuna.
Non tanto le sue capacità vocali, o la sua showmanship, o il suo modo di vestire. Tutti questi elementi, presi singolarmente, valgono poco; ma, uniti insieme in un personaggio memorabile, restituiscono una figura che è stata, volente o nolente, la più forte degli anni ’80 e, per certi versi, di tutta la fine del ventesimo secolo. Oggi, infatti, tutti conoscono Michael Jackson.
Da dove iniziare? Dagli eccezionali videoclip, che hanno esteso i confini di quel mezzo promozionale a limiti fino a prima impensati? Oppure dalle coreografie, come quella di Thriller, ancora oggi conosciuta e imitata in tutto il mondo? Certo non ci si può scordare della musica: Off the Wall (1979), Thriller (1982) e Bad (1987) vanno, ciascuno per i propri meriti, annoverati tra le principali opere musicali della loro epoca. Principali, attenzione, non significa per forza migliori.
Infatti, musicalmente parlando, Jacko non ha fatto a suo tempo nulla che non avessero già fatto, tanto per buttare lì un po’ di nomi, Stevie Wonder, Sly Stone, George Clinton, Lionel Richie. Di nuovo, è stata l’immagine, la costruzione dell’icona, a contare. Più un universo di collaboratori, che va da Quincy Jones a Rod Temperton, i quali hanno sempre assicurato a Jacko la conservazione della sua fama. Senza dimenticarci della somma benedizione del re della musica anglofona, Paul McCartney, impartita tramite diverse collaborazioni (almeno un paio quelle celebri: Say Say Say, del 1983, e The Girl Is Mine, dell’82).
Una fama solida, che, però, è andata incrinandosi: la vitiligine, la plastica facciale, gli incidenti. Tutto è culminato, nel 1991, con lo scontro traumatico con l’America degli anni ’90, ormai stanca delle popstar patinate dell’epoca Reagan, e vogliosa di sporcizia, di cupezza, di introspezione: insomma, voglia di grunge e dei Nirvana. Da lì è stata una continua discesa, e un continuo e crescente disinteresse da parte del pubblico e dell’industria. Fino alla scomparsa, nel 2009, per cause molto confuse, e chiarite solo in seguito.
Oggi è ancora complicato parlare di un artista del genere, perché la portata di ciò che ha fatto è talmente ampia che si rischia di non coglierne appieno il significato. Morte e rinascita della musica, dalla radio alla televisione; iconicità e idolatria, carisma e talento; successo, fama, disgrazia, morte. Tutte queste cose vanno a perdersi in un universo che non è fatto solo di canzoni, ma di frasi, film, eventi, abiti, video, pettinature, glitter, coreografie.
Ci vorrebbe un bel libro, di quelli spessi, per cercare non solo di raccontare la storia di Michael dall’inizio alla fine, ma anche e soprattutto per cercare di capire fino in fondo quello che è stato e quello che ha lasciato in questo mondo con il suo passaggio; passaggio, il suo, certo non inosservato. Nel frattempo, però, diciamo questo: vi sfidiamo a nominare un cantante pop, soul, R&B (e spesso anche rap) moderno che non mostri, almeno in minima parte, l’influenza di Jacko.
Bruno Mars, Pharrell Williams, The Weeknd, tirateli fuori tutti: non c’è metro migliore di questo per misurare quanto Michael abbia impresso il proprio marchio nella storia, anche quella non strettamente musicale. Può non piacervi, potete non gradire le sue canzoni; oppure, viceversa, potete adorarlo e avere il suo poster in camera, come Macaulay Culkin nel video di Black or White. Ma non è questo il punto, e non lo è più già da diversi anni.
Qui si va ben oltre. Si parla di un fenomeno che, quasi inconscio di sé stesso, ha cambiato il mondo; il modo di pensare, il modo di vedere, di vestire, di parlare. E anche il modo, naturalmente, di suonare, di cantare e di ascoltare musica. In definitiva: come si fa ad esprimere un giudizio finale, risolutivo, su un fenomeno simile? Provateci: scommettiamo che avrete la nostra stessa difficoltà.