Pochi cantanti sono riusciti, come Jeff Buckley, a segnare così a fondo la storia della musica, pur attraversandola tanto velocemente. Jeffrey Scott Buckley, nato Scott Moorhead nel 1966, è stato uno di quegli artisti, come Nick Drake o Ian Curtis o Kurt Cobain, troppo speciali per questo mondo. C’è quasi da aspettarsi, a posteriori, che la sua storia debba avere un finale tanto tragico. Capacissimo musicista, eclettico fin da bambino, Jeff Buckley apprende ogni tipo di musica già dagli anni ’70, andando dal prog degliYes all’hard rock dei Kiss. Si interessa di ogni stile, aggiungendo il blues di Robert Johnson, la musica tradizionale indiana, e la classica moderna di Maurice Ravel e Béla Bartók.
Il suo primo e ultimo album, Grace, esce nel 1994. Un capolavoro senza tempo, mostra tutte queste influenze mescolate in un unico corpo stilistico che si dimostra ispirato dall’inizio alla fine. Non solo la versione, celebre, dell’Halleluja di Leonard Cohen. Ma anche il classico di Broadway dal titolo Lilac Wine (1950), e un ri-arrangiamento della delicata carola cinquecentesca Corpus Christi Carol, riscritta da Benjamin Britten nel 1961. Anche il resto è un calderone di suoni di varia provenienza e natura, celati dietro una spolverata di alternative rock tipico del periodo. Last Goodbye, So Real, Mojo Pin si ergono come capolavori assoluti del decennio.
Grace rimane l’unico vero testamento del cantante. La sua sorte, per un crudele scherzo del destino, segue quella del padre: Tim Buckley, nome fondamentale del rock fusion sperimentale a cavallo tra anni ’60 e ’70, morto di overdose nel 1975. Anche il figlio scompare, infatti, tragicamente in età giovane, durante una innocua nuotata in un affluente del fiume Mississippi, nel 1997. Testimoni dicono che Jeff si sia immerso con tutti i vestiti addosso, cantando Whole Lotta Love dei Led Zeppelin. Passata una barca, il cantante sparisce. Ricerche disperate non portano a nulla, e solo una settimana dopo il suo corpo viene ritrovato. Molto si è speculato sulla sua morte: c’è chi ha parlato, immancabilmente, di suicidio, e chi di overdose e di droga. Secondo gli inquirenti, ancora oggi, si è trattato solo di un banalissimo incidente, che poteva capitare a chiunque.
Ma è questo il punto: Jeff Buckley non era affatto chiunque, e non si riesce a credere che la sua scomparsa sia dovuta ad una causa tanto banale. Personaggi come lui sono sempre circondati da un’aura di divinità artistica, che ci porta, specie alla luce della loro stessa arte, a considerarli come figure ideali. Riascoltando Grace, ancora oggi, se ne ha la prova. E di nuovo, si ha questa terribile impressione che, dopo un’opera irripetibile e perfetta come questo album, la storia non potesse finire diversamente.