C’è un grosso problema che accomuna quasi tutti i remake in live-action dei grandi classici Disney, che negli ultimi anni hanno preso il sopravvento nelle sale; la magia e l’estrosità che permeavano i capolavori d’animazione della casa di Topolino, non riescono a prender la stessa forma e sostanza sul grande schermo. Se i canoni imposti da un film animato sono ben pochi e concedono grande spazio alla fantasia, con il cinema “in carne ed ossa” bisogna fare i conti con il fattore credibilità che, anche se aggirabile in certi contesti, è sempre presente anche in minima parte e ciò porta ad un appiattimento generale dello stile di questi prodotti.
Se l’Aladdin del 1993 era un’opera innovativa, briosa e sorprendentemente eccentrica, l’omonimo remake di Guy Ritchie è il suo gemello debole. Riprodurre i paesaggi e i loro colori, le ambientazioni e i personaggi al loro interno, attraverso l’uso di veri attori e della computer grafica non è esattamente la via più facilmente percorribile verso la strada del successo ed è proprio qui che l’ultima fatica della Disney crolla. L’anonimato vige sovrano e non bastano i rimandi evidenti a Bollywood e un’ispirata performance di Will Smith a rovesciare la medaglia a favore di questo Aladdin. A maggior ragione quando il resto del cast risulta talmente piatto e schiacciato dal contorno che lo ospita. Non tutte le fiabe sono fatte per essere raccontate due volte.