La storia di uno dei massimi capolavori della musica made in UK: l’esordio degli Stone Roses.
Siamo sul finire degli anni ’80. La musica inglese langue, dominata da nomi mainstream che di rock hanno poco, come Tears for Fears o Phil Collins. Nel frattempo MTV permette ai gruppi glam metal americani di invadere le classifiche di tutto il mondo, e il pop è nella sua età dell’oro con artisti come Madonna o Prince. Ma del rock inglese, quello che a metà anni ’60 si era diffuso in tutto il mondo con la British Invasion e si era poi imposto per tutto il decennio successivo, non c’è molta traccia. L’ondata successiva, quella del punk, si è ormai spenta: sono passati più di dieci anni e molte band hanno finito col dedicarsi a generi diversi e progetti complicati.
Manca, in Gran Bretagna, un grande nome, un gruppo che possa riprendere quelle musicalità classiche e rinnovarle, per riportare alto l’orgoglio della musica inglese. Il nome più papabile, quello degli Smiths, è venuto a mancare da due anni: dopo la pubblicazione dell’ultimo album, Strangeways, Here We Come (1987), Morrissey e compagni si sono sciolti.
Allo stesso tempo, essi non mancano di strizzare l’occhio ai primi sintomi della contemporanea scena rave, partecipi di quella che nel 1989 viene chiamata la seconda “Summer of Love”. I gruppi della scena cosiddetta “Madchester” (termine con cui viene definito il loro stile), come Happy Mondays e Inspiral Carpets, guardano con orgoglio alla generazione dei genitori hippie, e riscoprono volentieri i Beatles e le droghe leggere.
Il ritorno degli anni ’60
Il songwriting degli Stone Roses è perfetto, melodico, graffiante ma introspettivo, ambizioso ma in maniera umile. Già le prime tre canzoni, I Wanna Be Adored, She Bangs the Drums e Waterfall, sono entrate nella leggenda. Ascoltandole si possono letteralmente sentire gli Stone Rosesreinventare daccapo la musica della loro terra, e cogliere i sintomi di tutto quello che sarebbe venuto dopo: Suede, Blur, Oasis, Cast, e così via. Il britpop nasce come genere, anche se non ufficialmente, con questo album. Don’t Stop, continuazione e seguito psichedelico di Waterfall, rende ben chiara la natura allucinogena della musica della band, come fa anche il celebre singolo Fools Gold (1989, inizialmente non inserito nell’album). La loro è anche una musica da ballare, e che non si astiene dall’idea di coinvolgere il pubblico anche a livello emotivo, oltre che artistico.
L’album prosegue in maniera sempre più memorabile con Bye Bye Bad Man, forse la canzone più sottovalutata dell’album. Arriva poi Elizabeth My Dear, breve ripresa della ballata tradizionale Scarborough Fair (resa nota da una versione del 1965 di Simon & Garfunkel). Anche tutte le altre canzoni, ognuna a modo suo, fanno sempre scuola: soprattutto Made of Stone, This Is the One, e I Am the Resurrection, con la sua jam di coda leggendaria.
Undici canzoni, undici classici.
L’attitudine del disco, ancora più che la musica stessa, ispira un’intera generazione di musicisti che di lì a poco imbracceranno le chitarre elettriche e ingrosseranno le fila del nuovo rock inglese. Basta ascoltare Leisure, il primo album dei Blur: l’influenza degli Stone Roses è evidente. Altre tracce si trovano persino nei Radiohead, e in praticamente in ogni band inglese degli anni ’90, cercando bene.
Un peccato che, al di fuori del Regno Unito (e specie in America) la band non venga capita. Ancora oggi, solo gli inglesi possono dire di amare davvero gli Stone Roses e di averli nel cuore. L’enorme successo e la duratura influenza del loro disco lo provano, e lo prova anche l’aura di santità dalla quale ancora oggi sembrano circondati, in terra inglese, i quattro componenti. Ma anche prescindendo da queste derive, The Stone Roses rimane davvero uno dei migliori album mai realizzati, perfetto in ogni nota e in ogni dettaglio, che a distanza di anni non ha perso nulla dello smalto e dell’energia psichedelica che lo caratterizza.