Disintegrare per ricominciare da capo: il coraggioso ed epocale salto nel buio di Robert Smith
Secondo i puristi del genere, la musica allucinata e allucinante può essere capita soltanto da chi si tuffa nel mondo dell’acido lisergico. Quelle sensazioni così colorate, o al contrario così nere, può dartele soltanto l’LSD, nient’altro può riuscire a spiegarle. Eppure il tuffo nell’oscurità di Disintegration, ottavo album dei Cure, così acido e ossessivo, rimane ancora oggi un trionfo mainstream ma soprattutto un capolavoro.
Il disco esce il 1° maggio 1989, pubblicato da Fiction Records nel Regno Unito e dalla Elektra Records negli Stati Uniti; i Cure, guidati dalla mente visionaria di Robert Smith, sono ormai una band di fama mondiale. Il punto di partenza di Disintegration è proprio questo, la profonda depressione nella quale Smith è scivolato a causa del successo e dell’avvicinarsi dei trent’anni, una maturità che voleva essere artistica, oltre che anagrafica.
Negli anni, le sonorità dei Cure si erano prima incupite con Seventeen Seconds (1980) e Pornography (1982) e poi gradualmente colorate, toccando l’apice del pop glamour con Kiss Me Kiss Me Kiss Me (1987). Se quella era stata considerata la loro maturazione artistica, a Smith non bastava: “maturazione artistica” spesso coincideva, e coincide, con “maggior successo commerciale”, e per i suoi alfieri post-punk Smith voleva un disco solenne, un vero masterpiece, che dimostrasse la loro capacità compositiva; o forse che dimostrasse innanzitutto la sua, al punto che ha composto da solo ogni traccia del disco e aveva deciso che, nel caso al gruppo non fossero piaciuti i brani, avrebbe pubblicato il disco lo stesso come progetto solista. Le canzoni di Disintegration, quindi, sono innanzitutto personalissime nei testi e nella musica, e l’LSD non c’entra.
Le sonorità vestono le parole di Robert Smith in maniera perfetta, in un accurato lavoro di atmosfera.
Disintegration non è un disco di musica ambient, ma con un po’ di incoscienza lo si potrebbe definire tale, secondo la definizione di “ambient” data da Brian Eno:
La musica Ambient deve essere capace di andare incontro a numerosi livelli di attenzione nell’ascolto, senza esaltarne uno in particolare: deve essere tanto ignorabile quanto interessante.
Brian Eno, settembre 1978
I brani arrivano ad una lunghezza insolita (i nove minuti e mezzo toccati da The Same Deep Water As You), i ritmi diventano cantilenanti e ossessivamente ripetuti. Ogni pezzo, nessuno escluso, ha un’intro dilatata e sognante; e questo sogno può essere una scena scintillante (Plainsong) o un incubo (Prayers For Rain). Le chitarre non squillano, non c’è spazio per i solismi, ogni nota serve a trascinare l’ascoltatore in una stanza piena della stessa depressione nella quale Robert Smith ha nuotato e stava per affogare. Ogni nota, per quanto piccola, ha un significato, e può essere facilmente ignorata quanto inesauribilmente interessante.
Non è un flusso di coscienza però, anzi: la maturità di questo disco sta proprio nel suoequilibrio. I Cure riescono a non tornare nella loro fase felicemente pop ma anche a non far scivolare l’intero album nella più nera disperazione. Non si apre a più interpretazioni, non lo si può considerare un manifesto felice; ma lo si può ascoltare superficialmente, se si vuole, e risulterà comunque un disco bellissimo. Lullaby non ha nulla da invidiare ai successi commerciali degli anni Novanta, Lovesong rimane fedele al titolo ma è carica di quell’angoscia e di quei violini che la rendono diversa dalle solite canzoni d’amore. Robert Smith sussurra al microfono, parla come se stesse leggendo il suo diario. I brani di Disintegration “funzionano” ma non sono insulsi, e questo è un trionfo totale.
Nato acido e cresciuto perfetto, Disintegration parla a tutti, ma sottovoce.
Considerarlo un disco per la massa può far storcere il naso, ma bisogna prendere atto di come questo album sia capace di parlare contemporaneamente in due lingue diverse: l’idioma contorto e allucinato e il non facile slang del mercato discografico.
Disintegration è “dark”, come lo è stato Pornography sette anni prima e come lo sarà Bloodflowers undici anni più tardi, nel 2000. Ma non bisogna essere tristi per ascoltarlo, basta impegnarsi e cercare di scrutare, nel silenzio, le sue parole. Il partecipare o meno al disagio di Robert Smith aiuta a comprenderlo a fondo, ma non è una prerogativa. Il lascito dei Cure al mondo non si limita alla tristezza, quindi non c’è problema, potete ascoltarlo anche se siete felici, e i dischi con i quali potete fare lo stesso si contano sulle dita di una mano: personali, evocativi ma mai criptici, un perfetto equilibrio fra musica fine a sè stessa e musica al servizio di ciò che si vuole dire. Questo, è un capolavoro.