L’album di debutto di Jade Bird è un buon folk rock di come non se ne sentiva da tempo. Semplice quanto coinvolgente, e tutto imperniato sulla voce straordinaria della cantante. Se ha una pecca, è il fatto di averci già mostrato il meglio. Le canzoni più belle, cioè Love Has All Been Done Before, Uh Huh e soprattutto No Joy (quest’ultima una delle migliori uscite dell’anno) erano già tutte state pubblicate come singoli.
Il resto degli inediti contorna bene il fulcro di questi pochi pezzi particolarmente riusciti, veleggiando tra country rock e pop rock, ma senza raggiungere il livello dei primi successi di Jade Bird, e perdendosi anzi in quelli che suonano purtroppo come riempitivi. In sostanza, un ottimo album, ma che poteva riuscire molto meglio gestendo con più saggezza la pubblicazione dei singoli e anche la tracklist (Ruins non è affatto una buona traccia per iniziare: troppo tranquilla). In ogni caso, Jade Bird è arrivata e, dopo aver ascoltato il suo album, non la lasceremo certo andare via.
Cage the Elephant – Social Cues
Il nuovo album dei Cage the Elephant è quello che si definirebbe un disco maturo. Molto raffinato, certo meno rumoroso dei precedenti e che prosegue sulla strada già tracciata da Tell Me I’m Pretty (2015). Il momento migliore è certo il duetto dub con Beck, Night Running. Seguono a ruota House of Glass, e la prima, Broken Boy.
Queste sono le canzoni più accessibili, poi per il resto Social Clues è un affresco di stratificazioni sonore che vanno dal rock al soul, con accenni di funk e atmosfere che a volte ricordano gli Strokes. Un album da ascoltare e riascoltare, per apprezzarne i momenti miglior e peggiori. In conclusione, non un lavoro memorabile, ma il prosieguo logico della carriera dei Cage the Elephant, del quale i fan certo non saranno scontenti.
Sad Planets – Akron, Ohio
Davvero una bella sorpresa quella dei Sad Planets, side-project di Patrick Carney dei Black Keys, dei quali già vi avevamo anticipato l’esordio. L’album è più meno il regolare blues rock che ci si aspetta, a tratti più garage, a tratti più soul. Ma le canzoni si rivelano ispirate, toccando vette particolari in City Ghosts, Want You to Want You e Not of This World. Su tutto il disco è sparso un velo di psichedelia, che si esprime in discreti synth nebbiosi ed effetti di eco molto anni ’70.
Certo non un album che cambierà la storia della musica, ma di certo uno che può bene reggere il confronto con gli altri lavori dei Black Keys (specie con l’ultimo, Turn Blue, 2014), e che sicuramente è migliore di gran lunga rispetto all’ultimo album da solista dell’altra metà del duo, Dan Auerbach. Sicuramente da ascoltare e riascoltare per qualunque fan dei Black Keys.
All’improvviso, la Fat White Family ha sfornato un disco sorprendente, quello che si potrebbe definire con l’abusato termine “capolavoro”: certamente un gioiello inaspettato. Serfs Up! è un album multicolore che, senza mai abbandonare la melodia e l’orecchiabilità , mette insieme un art rock stile metà anni ’00 di livello davvero notevole. La band suona a volte come gli Arcade Fire, a volte come i Beirut (ma non noiosi), a volte come i Young Fathers, e a volte, con un bizzarro salto indietro, come i Residents.
Così la canzone Fringe Runner, la più rappresentativa di questo stile libero, volutamente vago, anche un po’ anarchico. Quando si crede, durante l’ascolto, di aver inquadrato ciò che la band sta facendo, il pezzo successivo arriva a smentire l’ascoltatore. Peccato davvero che questo disco resterà dimenticato, dato che la musica del gruppo è troppo complessa per l’easy-listening, e troppo poco “ribelle” per i radical chic. Ma se avete avuto la fortuna di leggere questa recensione, vi consigliamo assolutamente un ascolto approfondito di Serfs Up!