Dire qualcosa su un’autentica leggenda come Marlon Brando è un compito assai arduo e delicato. Tuttavia novantacinque anni fa Dorothy Julia mise al mondo un astro lucente, che non possiamo esimerci dal celebrare ancora una volta. Forse, però, celebrare non sarebbe la parola piĂą adatta.
Marlon Brando ha rappresentato un vero e proprio spartiacque nell’evoluzione della storia del cinema (parola di Martin Scorsese). Prima della sua affermazione e della sua folgorante ascesa, i principali attori hollywoodiani erano dei divi percepiti quasi come delle divinitĂ , in virtĂą della mitologizzazione della loro figura. Basti pensare a nomi del calibro di Humphrey Bogart e John Wayne.
Marlon scardinò prepotentemente questo concetto. Egli fu in grado di provocare la creazione di un vero e proprio mito intorno alla sua persona, ponendosi come una figura estremamente umana e molto piĂą vicina all’uomo comune rispetto ai suoi illustri predecessori. Marlon Brando è riuscito ad entrare nell’Olimpo del cinema, ponendosi come un vero e proprio antidivo.
Umano e antidivo. Ecco il binomio che ha contraddistinto Marlon e che si riflette perfettamente nel suo clamoroso rifiuto dell’Oscar come miglior attore protagonista per Il Padrino nel 73′. Proprio così, Marlon rifiutò il premio piĂą ambito, delegando al suo posto una donna nativa americana, che salì sul palco e disse:
Rappresento Marlon Brando, che mi ha incaricato di dirvi che non può accettare questo generoso premio, a causa del trattamento oggi riservato agli indiani d’America nell’industria del cinema.
Quanti altri avrebbero rifiutato un tale riconoscimento, perdendo la possibilità di calcare quel palco e mettersi in mostra con un discorso infarcito di tanta bella retorica? Probabilmente quasi nessuno. Fatte queste necessarie premesse per caratterizzare una figura così sui generis, veniamo al nocciolo della questione.
La provocazione insita nel titolo del nostro articolo è frutto della celebre e controversa intervista rilasciata dallo stesso Brando al famoso conduttore Dick Cavett, durante il suo Dick Cavett Show.
Credo che non avremmo potuto sopravvivere neanche un secondo, se non fossimo in grado di recitare. Credo che recitare sia un meccanismo di sopravvivenza. E’ un unguento sociale, un lubrificante. E noi recitiamo per salvarci la vita, lo facciamo tutti i giorni. Le persone mentono, costantemente, ogni giorno, non dicendo le cose che pensano o dicendo quello che in realtĂ non pensano oppure fingendo di provare ciò che non provano.
Fondando le radici del suo discorso in una concezione pirandelliana dell’uomo come maschera e al tempo stesso freudiana per le costrizioni sociali provocate dal nostro Super-io, Marlon Brando tesse una lode a tuttotondo dell’arte della recitazione. Recitare non è una semplice professione, ma è un bisogno intimo dell’uomo moderno che deve indossare una maschera diversa, a seconda dei contesti in cui si trova a vivere.
Rispondendo alle incalzanti domande del suo intervistatore, il celebre attore aggiunge:
Credo che anche io non potrei interpretare certe parti bene come te. Non penso di essere in grado di recitare la parte che tu stai recitando ora. E’ un altro tipo di recita, tu stai interpretando semplicemente un altro ruolo.
In ognuno di noi, dunque, è insito un attore, che viene necessariamente fuori in base ai nostri bisogni contingenti. Con queste parole Marlon Brando demistifica il mito dell’attore come un soggetto dotato di capacitĂ eccezionali, che lo contraddistinguono da tutti gli altri. Perfettamente in sintonia con le frequenze dell’intimitĂ umana, Brando azzera la distanza fra lo spettatore e l’attore, proprio in virtĂą della sua concezione della recitazione come vero e proprio salvavita.
In tutto ciò qual è dunque la funzione e quale la vera essenza della settima arte? Vogliamo lasciarvi con questo interrogativo e affidarvi alle sapienti mani del grande Marlon per trovare la vostra risposta.