Già l’alternative psichedelico di Planet Telex, la canzone di apertura, accoglie l’ascoltatore in un mondo sonoro che appare subito essere ben differente rispetto a quello di Pablo Honey. Il cantato lamentoso in falsetto di Thom Yorke, e l’incisivo lavoro di chitarra di Jonny Greenwood, fanno scuola. Dalla seconda traccia, The Bends, viene introdotta chiaramente l’etica di sperimentazione sonora che, in direzione strenuamente anti-commerciale, accompagna la trattazione di tematiche complesse ed introspettive. Solitudine, abbandono, isolamento, desolazione.
“I wish it was the sixties, I wish I could be happy I wish, I wish, I wish that something would happen”
– The Bends
“Vorrei che fossero gli anni ’60, vorrei essere felice Vorrei, vorrei, vorrei che accadesse qualcosa”
Se la relativa semplicità e positività di High and Dry, una sorta di ballad, riportano l’atmosfera del disco a toni più “pop”, ci si riprende immediatamente con Fake Plastic Trees, una delle canzoni più amate dell’album: è qui che si può realmente identificare l’origine di quello stile delicato, acre, ambizioso ed insinuante che caratterizzerà le future produzioni dei Radiohead; il crescendo della canzone non può far venire i brividi, mentre le liriche di Yorke riflettono pacatamente sulle realtà e le falsità del nostro mondo.
Le canzoni successive proseguono l’esplorazione di un rock alternativo anche risolutamente aggressivo: siamo ancora ben lontani dalle sperimentazioni elettroniche di Kid A (2000), e le chitarre la fanno ancora da padrone. Al rock sporco e molto garage di Bones, segue un altro episodio vagamente psichedelico, (Nice Dream) [sic.], e si arriva poi a Just, una delle canzoni migliori dell’album, e forse quella più ingiustamente dimenticata. Ancora Greenwood è il protagonista assoluto, riuscendo a costruire con il suo chitarrismo un sound originale come pochi altri chitarristi dell’epoca (per esempio John Frusciante o Graham Coxon) riescono a fare. La canzone è uno sfogo straziante sull’egocentrismo e sull’auto-commiserazione.
“You do it to yourself, you do And that’s what really hurts”
– Just
“Lo fai a te stesso, lo fai E questo è quello che fa veramente male”
Non c’è tempo di respirare, che subito arriva un altro capolavoro, nuovo pilastro del disco: My Iron Lung, pezzo dallo stile grunge con un finale sorprendentemente violento. A questo punto, l’intenzione dei Radiohead di fuggire dalle classifiche e da MTV è ormai palese. Arrivano quindi il folk intimista di Bulletproof… I Wish I Was, la languida Black Star (dalla quale prenderanno chiaramente ispirazione i primi Muse), e l’astratta Sulk. Poi il momento del gran finale, un’altra delle canzoni più amate dei Radiohead, che chiude degnamente quest’album di re-invenzione e di riscoperta: si tratta ovviamente di Street Spirit (Fade Out). Un arpeggio che possiamo definire nichilista guida quella che è la canzone più cupa e tenebrosa dell’album, lasciando intravedere chiaramente l’abisso che si aprirà , due anni dopo, in OK Computer (1997).
The Bends rimane ancora oggi, a molti anni di distanza, come uno degli album fondamentali della storica del rock (e non solo). Certo, il contributo musicale apportato poi da OK Computer e da Kid A sarà ben più notevole, inutile negarlo. The Bends rappresenta, tuttavia, il punto di partenza di una concezione della musica totalmente diversa, anti-conformista, che è quella che i Radiohead seguiranno per il resto della loro carriera. Nel 1995 quest’album porta una vera rivoluzione, che forse al momento non venne identificata come tale, ma risulta ben chiara alla luce dei frutti che il seme qui piantato darà poi.