<<Se avrò un figlio gli insegnerò ad amare. Se avrò una figlia le insegnerò che il mondo le appartiene>>.
Si chiude così Polytechnique di Denis Villeneuve, che al suo terzo lungometraggio diede prova di grande preparazione e sensibilità. Ormai conosciuto, e riconosciuto, per opere del calibro di Arrival o Enemy, questo film rappresenta un intimissimo momento di riflessione del regista canadese. Polytechnique affronta infatti un fatto di cronaca nera avvenuto a Montréal, quando il 6 dicembre del 1989 Marc Lépine uccise 14 studentesse all’Ecole Polytechnique.
L’associazione con il capolavoro di Gus Van Sant è inevitabile. Con Elephant però Polytechnique non condivide che pochi elementi sovrastrutturali e il pretesto di cronaca, poiché l’approccio dei due registi è completamente differente. Elephant infatti indugia molto sull’orrore, indagando la quotidianità delle vittime del dramma moltiplicando le linee temporali, con lunghi piani sequenza che si intersecano tra di loro. Così facendo Van Sant ha lasciato che si intravedessero le strutture sociali e psicologiche che hanno generato la violenza.
Polytechnique ha invece l’immediatezza dell’oggettività.
Inizia infatti ex abrupto con una scena della sparatoria, nella sala delle fotocopiatrici. A Villeneuve non interessa mostrare le cause della tragedia, ma mostrarcela in tutta la sua crudezza. Infatti gli antefatti psicologici sono pochi, e hanno la struttura di un’ammissione di colpa più che di un’indagine del comportamento criminale.
“Ho deciso di rimandare al creatore tutte le femministe che mi hanno rovinato la vita. […] Anche se i media mi etichetteranno come “tiratore pazzo assassino”, io mi considero una persona erudita e razionale, che è stata costretta a compiere dei gesti estremi per l’incombere della Grande Mietitrice.”
Questo è ciò che apprendiamo dalla lucidissima analisi che il killer fa di sè nella sua nota di addio. Una dichiarazione, una volontà, una lettera aperta che ci riporta direttamente al finale, alla commovente missiva di Valerie alla madre dell’assassino. Lei è la protagonista soggettiva del dramma, vittima a più riprese dei meccanismi perversi che si celano dietro la follia omicida stessa.
In una sequenza in particolare ci viene mostrato il suo significato centrale. Valerie ha la grande ambizione di lavorare per l’aeronautica, e decide di candidarsi per uno stage di ingegneria meccanica. Il suo interlocutore, durante il colloquio per il posto, afferma che è strano che una ragazza sia appassionata di meccanica, e che un posto del genere richiede continuità, dedizione e rinuncia: anche ad una gravidanza, e quindi ad una famiglia.
Questo è il primo di una lunga serie di atti misogini che bersaglieranno Valerie e le sue giovani compagne. La ragazza riesce ad ottenere il posto, dichiarando di rinunciare ai suoi sogni di madre. Una vera e propria usurpazione di genere, non dissimile dall’efferatezza degli omicidi compiuti da Marc Lépine. La ragazza va quindi a sfogarsi in bagno per l’abuso, e qui Villeneuve ricorre all’uso degli specchi per moltiplicare indefinitamente la figura della ragazza.
L’intento simbolico è quello di riassumere in Valerie la moltitudine di donne vittime di questo tipo di violenze. In tal modo lei è l’esemplificazione di un fenomeno diffuso, che investe tutte le Valerie per le quali essere donna, almeno una volta nella vita, è stato un problema. Lo stacco sull’inquadratura successiva ci mostra l’indifferenza in cui tutto questo avviene. Infatti, mentre Valerie vive una delle sue lotte quotidiane, tutti gli altri studenti condividono allegramente il loro tempo, totalmente all’oscuro o consapevolmente estranei.
Consciamente indifferenti.
Come ci viene mostrato nella scena che avvia il massacro. Quando Lépine entra nell’aula dove ci sono Valerie e i suoi compagni, divide le femmine dai maschi e costringe questi ultimi ad uscire dalla classe, che non opponendo resistenza consegnano le ragazze al carnefice. Qui Villeneuve sceglie un’inquadratura meravigliosa, che ha quasi un sapore metacinematografico.
Quasi che il regista volesse proiettarci il film addosso, per ricordarci che spesso anche noi ci macchiamo di viltà di fronte alle ingiustizie. L’unico che sembra voler fare qualcosa è il protagonista maschile di Polytechnique, Jean Francois, che cerca a tutti i costi di salvare la vita delle sue compagne. Anche lui alla fine, però, sentirà tutto il peso dell’ignavia e, dopo un’ultima visita alla madre, si suiciderà.
Ma il suo suicidio non sarà catartico.
Come non lo sarà quello dell’assassino, che alla fine accomunerà il suo destino a quello che ha deciso per le sue vittime. Infatti, anche se essi riusciranno a liberarsi dal macigno delle loro responsabilità, non toglieranno nessun peso dal cuore di Valerie. Porterà con sè il trauma della morte: non solo quella di tutte le sue amiche, ma anche di quella da cui è sfuggita. Vivrà la sua vita come una colpa, portandosi sulle spalle tutto il dolore senza potersi slegare da questo passato funereo.
Quando scopre di aspettare un bambino, si ricongiunge con la metà femminile a cui aveva rinunciato all’inizio. Come donna-madre nasce in lei una consapevolezza nuova, in cui tutto il quadro è ben chiaro e la paura si illumina con un raggio di speranza. Questo elemento finale completa l’immagine della violenza quotidiana che subiscono le donne, e della loro forza naturale che nel profondo non ne esce scalfita, nonostante tutto. Il messaggio di Polytechnique è universale, ed è rivolto a tutti, come un monito di richiamo alla giustizia e all’amore per un mondo che ancora oggi continua a ripetere gli stessi errori. In memoriam per le vittime di Montréal, ma anche per tutte le donne colpevoli di essere donne.
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