Da Bessie Smith a Missy Elliott, la “professione artista” diventa una delle più alte espressioni di emancipazione sociale.
Sono migliaia le donne che hanno influenzato il panorama musicale in modo più o meno significativo, e non necessariamente vestendo i panni della cantante/musicista: si vedano Cynthia Plaster Caster o Pamela Des Barre, per esempio. Oggi vi raccontiamo di quelle che, tra loro, hanno lasciato le impronte più rilevanti della storia della musica.
Bessie Smith – L’imperatrice del blues
Immaginate cose potesse significare essere una donna, per di più di colore, nel 1894 e in una delle terre più povere e sperdute dell’America del sud. Senza girarci troppo intorno, vi basti sapere che la cornice in cui si sviluppa il talento di Bessie Smith è tutto fuorché rosea: resta orfana di genitori a soli 5 anni; a 10 perde la verginità – non si sa con chi, ne perché – in una delle case di gioco e malaffare che fiorivano nella città e in cui si esibiva per racimolare qualche soldo; da dolce bambina si trasforma in brevissimo tempo in una giovane donna consumata da vizi e cattive abitudini.
Fino a qui niente di diverso rispetto a quanto vissuto da un altro centinaio di sue colleghi conterranee. Allora perché la sua impronta fu così grande da valergli l’epiteto di “imperatrice del blues“? Oltre all’incarnare perfettamente la maledizione tanto cara al genere che interpretava, la sua innovazione consisteva nel modo in cui pronunciava le parole: ne cambiava il ritmo, delle volte anche il senso. Il canone tipico del blues è la ripetizione: di accordi, di parole, di intere frasi. Bessie Smith fece della variazione un’ arte, cantando frasi identiche con ritmo, accenti e pause ogni volta diversi; un’ arte in cui anche i sospiri e gli spazi silenziosi erano usati sapientemente. Bessie dava voce a chi voce non aveva, ma non solo: i derelitti, gli inetti, gli emarginati di ogni colore ritrovavano in lei la propria appartenenza.
Debbie Harry – L’icona della new wave
Facciamo un salto in avanti, catapultandoci negli scintillanti anni in cui Jack Nicholson vinceva l’oscar come miglior attore protagonista in “Qualcuno volò sul nido del cuculo“, in un periodo ben oltre la pop art priva di simbolismo di Andy Warhol. Tutte le radio e i juke-box trasmettono i più grandi tormentoni delle band del momento. Tra questi i Blondie, formatisi proprio in quegli anni, che in seguito, con brani come Call Me e The Tide Is High, scaleranno prepotentemente le classifiche internazionali.
Non è facile capire se i Blondie rientrino nella pop music o se strizzino più l’occhio alla new wave, ma nonostante l’impossibilità di contenerli in un solo genere, non c’è dubbio che la voce della sensuale Debbie Harry abbia accompagnato il corso degli eventi a cavallo dell’epoca. Quello che non tutti sanno , è che dietro la stragrande maggioranza dei successi della band c’era proprio la sua penna.
Dunque non solo un bel faccino, capelli biondo platino e corpo da urlo: Debbie Harry ha contribuito (insieme a tante altre, come Annie Lennox) a sdognare il tabù che riguardava la figura femminile nel mondo della musica. Non più solo interprete o lead vocalist, ma parte attiva e fondamentale del processo creativo di una band.
Missy Elliott – La regina dell’hip-hop
La musica in ogni sua sfumatura è quasi sempre nata come reazione ad un certo “conformismo”. Il caso di Missy Elliott è tra i più singolari di tutti. Nell’era in cui le riviste patinate erano zeppi dei latex succinti delle Spice Girls, la stessa era di Britney Spears, dei Backstreet Boys e di Tupac e BIGGIE, la massima espressione dell’anticonvenzionale era una corpulenta black beauty in tuta nera laccata e con degli enormi occhiali rossi sul viso.
Stiamo parlando di Supa Dupa Fly, il battesimo musicale di Missy Elliott (con dei padrini d’eccezione: Busta Rhymes, Lil Kim, Aaliyah, Timbaland dicono niente?), dopo il quale dischi di platino e riconoscimenti sono arrivati a iosa. Il mondo del rap era diviso fino a quel momento dalla diatriba West Coast/Est Coast, e i testi facevano spesse riferimento ai topoi dell’epoca: droga e violenza. Missy Elliot si distacca fulgidamente da tutto questo, provocando non solo una rottura nel genere, ma tracciando un sentiero tutto suo.
Le lyrics sono più disimpegnate, frivole, sia negli argomenti che nella forma. Imposta un modo nuovo di fare songwriting per l’hip hop, evitando l’abuso di sample e infilando breakbeat con abilità magistrale. Tutto questo, insieme al suo particolare modo di vestire, confermano l’assoluta originalità di Missy Elliot nel panorama dei novanta e primi duemila.
Joan Jett – La stella del punk
Joan Jett è una donna dai molti primati. È stata la prima artista femminile a possedere la sua etichetta discografica, una delle prime stiliste punk-rock e una delle prime stelle punk americane ad esibirsi dietro la cortina di ferro negli anni ’80. Il suo stile di moda punk-rock con borchie e pelle è ormai di serie sugli abiti da palco per molte band heavy metal.
Il suo più grande successo, “I Love Rock ‘N’ Roll“, è diventato un brano di fama mondiale in tempi brevi. Una canzone così “grande” ha però messo in ombra la sua “altra” musica, costellata di collaborazioni e album pregiovolissimi, in una carriera cominciata alla tenerissima età di 15 anni con le Runaways (che, ricordiamo, era un progetto musicale di Alice Cooper).
Tutto sarebbe andato a gonfie vele, se non fosse che gli USA cominciarono a guardare di traverso la band capitanata da Joan Jett. Una rock band adolescenziale, che trattava argomenti tabù come droga o sesso, era decisamente troppo per un’America ancora fortemente conservatrice come quella degli anni ’70. Le case discografiche cominciarono quindi ad interrompere la produzione degli album, gli sponsor a rigettare il progetto.
L’industria discografica statunitense stava ammettendo senza troppi problemi quanto si sentisse ancora impreparata davanti alla sfrontatezza delle Runaways; sarebbe stato più apprezzabile un’immagine di compostezza e di sobrietà, piuttosto che quella di un gruppo di scalmanati in latex e borchie. Quindi quali alternative aveva la giovane Jett, se non quella di fondare un’etichetta tutta sua?
La risposta all’ostracismo musicale perpetrato fu nella perseveranza, e nella convizione di Joan Jett di poter produrre davvero qualcosa di rivoluzionario e di diverso dalle melense cantilene propinate dall’industria dell’epoca. La Jett ha ampiamento dimostrato, negli anni, di possedere talento e attributi anche fuori dal palco.
Patti Smith – La sacerdotessa del Rock
E’ impossibile non associare il nome di Patti Smith agli eccessi romantici (lasciatecela passare) della Summer of Love. E altrettanto difficile è riuscire a descrivere in poche righe quella che è universalmente riconosciuta tra le maggiori icone viventi del rock. Ora, è chiaro che un tipo come Patti Smith fosse già destinato alla grandezza prima di arrivare dove è ora.
Erano gli anni ’60 quando, poco più che ventenne, si trasferì nella vibrante New York alla ricerca di nuovi stimoli. Il resto è storia: dalla relazione con il fotografo Robert Mapplethorpe, a cui ha dedicato il libro “Just Kids”, fino alla pubblicazione di Horses, uno dei migliori album della storia del rock. In quaranta anni ha analizzato il mondo in tutte le sue forme d’arte, attraverso musica, fotografia, poesia, romanzi, pittura e scultura, lasciando ovunque un segno indelebile. Eppure, nessuno avrebbe mai scommesso nulla su di lei.
Capiamoci, era sempre stata una bambina alta, allampanata, malaticcia, con un occhio sinistro pigro e timidissima: qualcosa di lontano anni luce dalla rockstar innovativa e audace che è stata. Patti stessa disse di lei che non era attraente, non era comunicativa, non era nemmeno molto intelligente, almeno non a scuola. Non era nulla di tutto ciò, e non ha mai dimostrato al mondo di essere qualcosa di speciale. Ma segretamente covava questa enorme speranza che sarebbe diventata qualcuno, un giorno, ed è questo spirito ad averla mantenuto forte: la sensazione di sapere che sarebbe stata in grado di arrivare oltre le sue fattezze.
Patti Smith non è stata solo tra le figure più rivoluzionarie degli anni ’70, ma una vera e propria poetessa, responsabile di aver dato al rock la sua impronta raffinata e colta.