La Scimmia intervista i Tre Allegri Ragazzi Morti

Tre Allegri Ragazzi Morti
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Abbiamo parlato con il bassista dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che da più di vent’anni viaggiano fra punk, reggae e pop, cambiando continuamente costume e al tempo stesso mantenendo sempre la maschera da teschio.

Il nuovo disco dei Tre Allegri Ragazzi Morti, Sindacato dei Sogni (qui la nostra recensione), ci ha lasciati spiazzati; come ogni album della band friulana da qualche anno a questa parte. La capacità del gruppo di reinventarsi, dopo 25 anni di carriera (celebrati proprio quest’anno), continua ad emergere in veste differente in ogni album. E allora abbiamo telefonato al bassista della band, Enrico Molteni, per chiedere spiegazioni riguardo a questa ulteriore svolta. Ne abbiamo approfittato anche per cercare di comprendere da dove abbia origine il filo che ha collegato i Tre Allegri Ragazzi Morti, Pordenone, il reggae e la cumbia.

La prima domanda sorge spontanea: da dove sono nate le idee e soprattutto il nome dell’ultimo disco dei Tre Allegri Ragazzi Morti? Raccontaci la gestazione di Sindacato dei Sogni.

Allora, il penultimo disco è stato fatto tre anni fa, si chiamava Inumani (2016, ndr), e quindi in questi tre anni abbiamo raccolto un po’ di idee. Di solito facciamo uscire un disco in media ogni tre anni, che credo sia il tempo necessario per vivere e raccogliere un po’ di immagini da raccontare poi nel disco stesso. Riguardo al titolo, posso dirti che non è stato il titolo di lavorazione, perché il disco era già pronto prima che ci venisse in mente. Il titolo “Sindacato dei sogni” ci piace molto ed è, in un certo senso, “scippato” ad un gruppo americano che si chiama appunto The Dream Syndicate, il quale a sua volta poi l’ha preso da un progetto nel quale erano coinvolti altri gruppi. Insomma, l’idea del “sindacato dei sogni” è un’idea che associa due cose che fondamentalmente non possono essere messe assieme, e a noi piaceva perché siamo abituati a lavorare con gli ossimori. Per esempio, “Allegri Ragazzi Morti” è un ossimoro. Ci piaceva che il titolo del disco fosse evocativo, l’idea era quella di creare uno “sportello” dove poter andare a reclamare i diritti che si hanno sui sogni.

Anche alcuni pezzi del disco hanno titoli che spiazzano, penso ad esempio a “Una ceramica italiana persa in California”. Questi titoli sono stati successivi o sono stati il punto di partenza per la scrittura del brano?

Nello specifico, la canzone di cui hai parlato è arrivata sicuramente dopo; all’inizio il pezzo si chiamava “Enorme” perché effettivamente era molto lunga e ci sembrava una cosa divertente dargli questo nome, come titolo di lavorazione. Quando abbiamo scelto la copertina, abbiamo pensato che sarebbe stato bello, dato che non avevamo un titolo alternativo. Dare cioè a quella canzone un titolo che sarebbe stato la descrizione della copertina dell’album (la copertina raffigura una ceramica italiana degli anni ’70 venduta in California, ndr). Insomma, questo è stato il processo.

Il disco è sembrato molto più sperimentale rispetto al penultimo e rispetto a molti altri dischi della vostra carriera. Le idee sono affiorate autonomamente o è stata una spinta voluta verso la sperimentazione?

In realtà è stato in parte voluto: volevamo fare una cosa “non di moda”, diciamo così; una cosa molto “nostra”, molto particolare. Poi nel nostro DNA c’è una forma di innata… chiamiamola “leggerezza” pop nella scrittura, quindi stavolta sicuramente non volevamo fare un disco leggero né un disco alla moda. L’album che è uscito è il risultato di questa intenzione e di quello che siamo, di quello che è successo nei giorni in studio.

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Come portate avanti il processo di confronto con i dischi della vostra stessa carriera come Tre Allegri Ragazzi Morti? Come avvertite nel rapporto con i fan i repentini cambi di “punti di vista” nella composizione dei vostri dischi?

Nel 2010 abbiamo pubblicato Primitivi del futuro, un disco fortemente influenzato dalla musica reggae, per non dire un disco reggae; è stata la prima volta che abbiamo fatto qualcosa che sapevamo avrebbe attirato l’attenzione, perché era molto diversa dalle precedenti. Fare quel disco ci ha molto uniti, nel senso che avevamo deciso di fare qualcosa che piacesse a noi senza pensare troppo a quello che poi sarebbe successo all’esterno del nostro gruppo.

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Foto: Magliocchetti Lombi

Il riscontro, nel complesso, è stato positivo: qualcuno ha gridato allo scandalo, qualcuno ha gridato al miracolo, qualcuno non ha gridato, però in generale ha attirato la curiosità e ci ha fatto capire che il timore delle cose che facciamo dobbiamo averlo innanzitutto noi. In questo senso, da quel momento in poi, abbiamo sempre cercato di fare delle cose che venissero da noi, senza preoccuparci troppo di quello che poteva essere l’effetto sul mondo fuori dal nostro studio. In questo disco il cambiamento più grosso è stato sicuramente quello del produttore, che si chiama Matt Bordin. Sapevamo di stare per approcciarci alla registrazione con molti strumenti vintage, con un metodo analogico, e questo avrebbe portato il disco verso un suono diverso.

Sembra che comunque il disco sia stato accolto bene.

Mah, sembra di sì! Il disco è comunque uscito da poco, è un disco che forse ha bisogno di due ascolti anziché uno, perché comunque contiene delle dilatazioni psichedeliche rispetto ai lavori precedenti. Comunque direi di sì dai, noi siamo contenti, stiamo avendo dei riscontri positivi, quindi direi che è andata bene.

Hai toccato tu stesso il tasto della musica reggae, e quindi di tutte le influenze che avete iniziato ad inserire nella vostra musica. Quindi come funziona il processo che vede qualcuno interfacciarsi con una musica e una realtà che non è propria del suo Paese e della sua cultura?

Per noi c’è stato un filtro, che è quello del nostro produttore Paolo Baldini (appunto il produttore di Primitivi del futuro, ndr), che produce musica reggae e dub , ed è di Pordenone come noi. Lui, forse, è il responsabile di questa influenza reggae. Ma è anche vero che nel nostro Friuli per tanti anni c’è stato un festival reggae molto importante, il Rototom Sunsplash, al quale siamo sempre andati, e la musica reggae, per quanto non sia quella con cui siamo cresciuti, ci è sempre stata molto vicina. In più, abbiamo scoperto che c’è sempre stato un forte legame fra la musica punk e la musica reggae, creatosi fra le due differenti frange ribelli della società inglese, ossia i punk e i giamaicani, che stando insieme e passando molto tempo suonando hanno finito con l’influenzarsi a vicenda. Il caso più eclatante è quello dei Clash, che alla fine degli anni Settanta sono riusciti a mescolare i due generi.

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Foto: Magliocchetti Lombi

Insomma, siete i Clash italiani?

Magari! No, non credo sia facile trovare un gruppo straniero che corrisponda a noi, ma se dovesse esistere sarei veramente felice!

La scelta di virare, seppure non radicalmente, dal punk al reggae è dettata da un’esigenza di cambiare modalità espressiva? Avevate bisogno di dire qualcosa che poteva essere comunicata in maniera più efficace con il reggae?

Non proprio, nel senso che l’intento di fondo, secondo me, era quello di far capire che la nostra scrittura può essere concepita in vari modi. Non è tanto il genere che fa la scrittura, ma è la scrittura che può essere accompagnata da generi diversi. Credo sia stata percepita benissimo: tanto persone che non ci ascoltavano pensavano che fossimo un gruppo legato soltanto a quel calderone pop/punk, poi avvicinandosi hanno notato come ci fossero idee differenti e hanno dato spessore, hanno dato valore alla nostra musica.

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A proposito di Pordenone: agli occhi e alle orecchie di noi profani, il Friuli non è una regione di rilevanza nazionale sul piano della scena musicale. Com’è stato per i Tre Allegri Ragazzi Morti crescere, musicalmente, in questo ambiente?

Onestamente non è del tutto vero: la regione effettivamente non è legata alla musica, nel complesso, però la provincia di Pordenone ha una tradizione musicale forte. C’è tanto punk, i Prozac+ sono di Pordenone, il primo punk italiano dei The Great Complotto è nato proprio a Pordenone, c’è una forte scena reggae e in generale ci sono moltissimi gruppi. Insomma, storicamente Pordenone è una città di musica, ci sono tanti locali… forse in questo periodo si sta soffrendo un po’ da questo punto di vista. Però negli anni ci sono stati tanti concerti, tanti organizzatori, tanti promoter, quindi fondamentalmente a Pordenone si respira molta musica.

Felice di essere stato smentito, però in effetti di Pordenone non si parla molto come della capitale del punk italiano. Anzi, forse voi e i Prozac+ siete quelli che sono riusciti ad arrivare al maggior numero di persone su scala nazionale. Vi sentite anche un po’ orgogliosi?

Certo! Pordenone è anche la nostra fonte di ispirazione, però Pordenone nel senso di “provincia”, che in qualche modo corrisponde a tutta la provincia italiana. Ultimamente le metropoli hanno preso il sopravvento, ma negli anni ’90 moltissimi gruppi italiani arrivavano dalla provincia. Quindi nel momento in cui racconti la vita in una città di provincia le persone vi si possano identificare, che sia Pordenone o che sia Catanzaro. Siamo 60 milioni, e la maggior parte vive in provincia.

C’è chi vi accusa di fare ancora una musica troppo “piccola”, troppo adolescenziale. Sicuramente non siete vecchi, ma per qualcuno è passata l’età per suonare quello che suonate voi. Come vivete il gap generazionale?

L’adolescenza è un tema che per noi continua ad essere interessante perché è uno dei momenti più forti della vita di tutte le persone, quello in cui si decide da che parte stare, si delineano i propri interessi, si capisce chi si è. Quindi credo che ci venga abbastanza naturale continuare a scandagliare quella fase della crescita di un uomo. Così com’è vero che una persona può anche raccontare un viaggio sulla Luna senza essere mai stato sulla Luna, no? Nel senso che c’è sempre una questione narrativa dietro ogni testo: forse è più interessante parlare di quel periodo che di altri, perlomeno per noi, ecco. Non parliamo solo di quel momento lì, però sicuramente un certo tipo di rabbia, di convinzioni, di voglia di sognare sono legati all’adolescenza.

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Foto: Magliocchetti Lombi

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