Black Panther, Bohemian Rhapsody, Green Book: è di nuovo “la morte del cinema” per colpa del politically correct? Una lettura delle nomination agli Academy Awards 2019
Il problema degli Oscar è che non sono un concetto esportabile. L’incapacità cronica dei non-americani nel comprendere la natura del più importante e controverso evento cinematografico dell’anno è un circolo vizioso che si autorigenera di anno in anno. Ogni gennaio le Nomination sono annunciate, ogni gennaio mezzo mondo finge di scandalizzarsi per l’assurdità delle selezioni. Ogni febbraio le statutette vengono consegnate a pellicole inconcepibili, con criteri apparentemente insondabili, e ogni febbraio la gente sembra alzare le mani di fronte all’obbiettiva impermeabilità dell’Academy di fronte a qualunque considerazione “artistica”. Per ovvi motivi, “Miglior film dell’anno” è una targa priva di senso, e non sta ad una commissione di 6000 addetti ai lavori fissarne i requisiti estetici. Quel “Best” di fronte ad ogni categoria è per forza riferito ad altro. Un premio del livello degli Oscar non ha come punto di riferimento valori qualitativi.
Gli Oscar sono un premio mediatico, che la miliardaria industria del cinema mainstream americano assegna a se stessa: un premio che esalta Hollywood agli occhi del proprio pubblico, e che celebra patriotticamente la società che rappresenta. Ma per celebrare la propria società, è necessario saperla rispecchiare. Non c’è mai stato bisogno di un “Oscar al Film Popolare”: tutti gli Oscar sono popolari, nel senso più puro del termine. La festa dello spettacolo in funzione del pubblico, spettacolo che non è mai fine a se stesso ma costantemente impegnato nell’educare e “migliorare” idealisticamente la propria comunità. Scandalizzarsi per una presunta politicizzazione dell’Academy of Motion Pictures Arts and Science lascia il tempo che trova. L’organizzazione para-sindacale formata nel 1927 da decenni non è altro che la riconosciuta bacheca pubblica dell’impero hollywoodiano. Praticamente la sua agenzia stampa agli occhi del mondo. E la “giuria” che determina gli Oscar è un campione del DNA di questo impero
Le Nomination, in due righe: i seimila iscritti al registro, suddivisi in diciassette ambiti professionali, vengono chiamati ogni dicembre a proporre una classifica personale di cinque tra i centinaia di film “submitted” alla loro categoria. In base alle graduatorie, vengono poi conteggiate le cinque pellicole più “citate”, che andranno ad ottenere la nomination e il mese dopo saranno votate liberamente per il premio (la procedura, affidata all’accountant inglese PricewatherhouseCoopers, è più complicata di così, e arriva a richiedere intere settimane di scrutinio). Tenuto conto di ciò, i discorsi di merito stanno a zero. Gli Oscar sono riconoscimenti assegnati tra amici, colleghi, un circuito chiuso che per forza di cose finisce involontariamente per danneggiare pellicole straniere, o indipendenti, o semplicemente misteriose (che in molti non si prendono neanche la briga di rintracciare). Logicamente, la precedenza viene data ai grandi studios, che, consapevoli dell’importanza di mettere la statuetta sulla locandina, arrivano a spendere decine di milioni in una campagna che è praticamente politica.
Gli Oscar riflettono l’industria che li produce, e l’industria che li produce deve, per sopravvivere, riflettere il sentire della società intorno a lei. Per anni ciò si è tradotto nella più o meno totale sovrapposizione dei gusti dell’Academy alle politiche conservatrici della maggioranza (i famosi “polpettoni” propagandistici che negli anni ’50 e prima dominavano la cerimonia), con successive aperture alle correnti della controcultura post 68 (la New Hollywood), approdando al divismo e alle blande politiche umanitarie dei ’90 e 2000 (i celebri film su malattie o geni tormentati – ormai messi da parte). Sempre, rigorosamente, all’insegna di una compiacenza interessata, ma non per questo disonesta. Quando nel 2015 Spike Lee lanciò l’OscarsSoWhite lamentando il mancato riconoscimento dei professionisti afroamericani, fu una questione di legittimazione: “ci siamo anche noi, e meritiamo spazio sulla passerella”. La presidentessa Cheryl Boone Isaacs (donna nera, per paradosso) difese la categoria, ma si mosse saggiamente aprendo a 400 nuovi membri e pareggiando le quote obbligatorie dei nuovi isciritti a partire già dal 2016 (uno studio del LA Times rivelava percentuali inquietanti: 94% di iscritti bianchi, 77% maschi). Si aggiunga al discorso lo psicodramma causato dalle Presidenziali del 2016, ed è chiaro che parlare di “politically correct” sia fuori luogo. Semplicemente, la società ideale proposta da Hollywood aveva smesso di corrispondere a quella voluta dagli americani.
La presenza di film come Bohemian Rhapsody e soprattutto Black Panther è allora perfettamente funzionale. Così come è logica la poca considerazione per co-produzioni estere, il poco spazio al cinema indipendente o, storicamente, tutti quegli autori percepiti come lontani. “Kubrick non ha mai vinto un Oscar” è il classico punto di partenza dialettico per delegittimare l’operato dell’Academy. In realtà, è giusto così. In quanto esaltazione di Hollywood come specchio dell’America migliore, non ha senso premiare personaggi ambigui, polemici, o semplicemente estranei alla macchina. E’ invece sacrosanta (oltre che ampiamente prevedibile) la presenza del film di Ryan Coogler. E’ un film Disney, la corporation più potente e vincente di tutte; è un film di supereroi, il sotto-genere che ha definito questo decennio, ancora in attesa del riconoscimento che da una vita aspetta; ed è, ovviamente, il primo film incentrato su un supereroe di colore. E pazienza se, come hanno fatto notare in molti (più che altro al di qua dell’Atlantico), la portata “rivoluzionaria” del dare al pubblico protagonisti afroamericani sia tutta da valutare. E pazienza anche se un tema importante come eredità ed identità panafricana debba essere venduto alla massa mainstream attraverso la banalizzazione e la commercializzazione. Proprio la commercializzazione culturale che tanto disgusta gli europei è un concetto che sembra non esistere tra gli americani: più persone vedranno Black Panther, più persone si sentiranno incoraggiare nel riscoprire quel mindset spirituale che il film rozzamente promuove. Nel farlo, arricchiranno ulteriormente la stessa (bianchissima) industria, abilissima a calvare i fisiologici cambiamenti sociali della contemporaneità. Vince il pubblico, vince Hollywood, vince l’America e vincono tutti.
I Premi Oscar vanno letti attraverso una duplice lente. C’è quella commerciale, che promuove i film delle grandi major per dinamiche di potere (e spiega l’incetta di nomination di Bohemian Rhapsody, un film che persino RottenTomatoes non è riuscito a premiare); e c’è quella sociale, valutata dalla visibilità e il riconoscimento che la cerimonia regala a tematiche e urgenze della contemporaneità. La linea scelta dagli Oscar 2019 è stata la solita. Sospesa tra la celebrazione dell’impresa economica (Bohemian Rhapsody), quella del glorioso passato (A Star is Born), del radioso futuro multiculturale e multi-commerciabile (Roma – forse il film più importante dell’anno in virtù dell’apertura allo streaming, e vincitore che potrebbe mettere d’accordo tutti), e naturalmente di un presente complicato, bisognoso di vedersi idealizzato e supportato da élite e celebrities (Black Panther, ma anche Green Book). Le uniche polemiche sensate sono quelle mosse dalla sfera femminista, che si è vista esclusa abbastanza clamorosamente da ogni tipo di considerazione. Ma anche qui ragionamenti tipo “Leave No Trace sarebbe meno bello di Green Book?” spostano di nuovo il tutto su un discorso qualitativo che come detto è del tutto alieno dalle meccaniche dell’Academy. Da quella direzione sono mancati titoli forti, e la precedenza è stata data ad altre urgenze. Ma ci sarà sempre un altro premio per cui scandalizzarsi. Presto ci si lascerà alle spalle le polemiche, e saremo liberi di ricominciare tutto da capo tra dodici mesi.