Il cinema nostrano, spesso e volentieri, è soggetto di derisioni. Molti italiani infatti, non perdono occasione per parlarne male, senza però conoscere realmente ciò di cui discutono. Un fenomeno populista, alimentato principalmente da internet e dalle più famose commedie natalizie, che impedisce al vero talento del nostro paese di poter emergere e di essere scoperto da tutti. Un ostacolo che va abbattuto e che, con questa piccola rubrica mensile, speriamo di contrastare anche in minima parte. Ecco quindi, 5 film italiani da vedere assolutamente:
1) Cani Arrabbiati – Mario Bava (1974)
Mario Bava nel corso della sua carriera è stato in grado di fornire diversi contributi al cinema, rivoluzionandolo sempre attraverso opere interessanti e confezionate egregiamente. Uno dei suoi lavori più eclettici, che è stato in grado di ispirare un artista del calibro di Tarantino, è sicuramente Cani Arrabbiati. Un’opera straordinaria, che non solo è riuscita a rivisitare il poliziesco all’italiana, confinando tutta la narrazione all’interno di una macchina, ma anche a fondare in piccola parte il pulp, come tutti noi oggi lo conosciamo.
Un film intenso e serrato, che porta la tensione alle stelle, anche grazie alla meravigliosa interpretazione degli antagonista delle vicende. Un racconto che non svela mai le sue carte e che riesce sempre a sorprendere lo spettatore, soprattutto nel finale, dove tutto quello che è stato costruito in precedenza, esplode.
Mario Bava con questo suo lavoro si conferma nuovamente un maestro della tensione e del ritmo, realizzando un’opera che ancora oggi risulta fruibile e dinamica. Un film dalle tempistiche serrate e dalla narrazione compatta, che trasporta lo spettatore in un vertice di violenza e depravazione. Cani Arrabbiati è tutto ciò che si può desiderare da un’opera di questa tipologia, risultando quindi capace di lasciare soddisfatti da ogni punto di vista. Un vero gioiello che non può assolutamente mancare ad ogni appassionato di cinema.
2) Il Sorpasso – Dino Risi (1962)
Un affresco vivido e palpabile di un’Italia del benessere, di un paese pervaso da un’ondata di ottimismo, indotta dal famoso miracolo economico. Il film di Dino Risi quindi è un simbolo, un’icona che incarna perfettamente un’epoca, andando a raccontare di una nazione e di tutto ciò che la contraddistingue.
Un viaggio di sola andata, che attraversa campi, luoghi e modi di vedere la vita diversi. Un’odissea caratterizzata da due personaggi, da due volti messi agli antipodi, ma allo stesso tempo ravvicinati da una reciproca attrazione esistenziale. Un tragitto che va ad unire così Bruno Cortona, scanzonato e spensierato quarantenne, e Roberto Mariani, giovane studente di legge e simbolo della media borghesia dell’epoca. Due elementi in contrasto tra loro, che per tutta la durata della pellicola, non faranno altro che scontrarsi, mutare e stuzzicarsi reciprocamente, in un evolvere continuo ed incessante.
Un’opera che, seppur presenti tutti gli stilemi della commedia all’italiana, non si risparmia nel portare avanti una critica alla società di quell’epoca, andandola a descrivere attraverso una sorta di realismo, che ricorda vagamente quello di De Sica e Rossellini. Un modo di raccontare, che trova maggiore spazio nelle sequenze legate alla famiglia di Roberto Mariani, vero estraneo in casa sua e tra i suoi parenti.
Il Sorpasso però non è solamente questo, ma è anche un film caratterizzato da diversi simbolismi, che spesso vanno ad anticipare la triste conclusione dell’opera, senza palesarla allo spettatore.
Dei moniti che rimangono del tutto inascoltati e silenti da parte dei personaggi, ma che lasciano comunque intravedere una sorta di pessimismo e di negatività dell’autore nei confronti di quel miracolo economico, che dava forza e vigore a tutti in quegli anni. Il Sorpasso inoltre potrebbe essere anche considerato come un racconto di formazione.
Un’opera che vede Roberto Mariani trasformarsi, rinnegare la sua etica, i suoi modi di pensare, per evolvere in un qualcosa di nuovo ed abbracciare la vita, per come è realmente. Una decisione che per quanto inizialmente positiva, nelle battute conclusive, si rivela invece nociva. Un contrasto pensato e messo in atto per tutto il film, ma che nel finale, trova la sua massima essenza, dando vita così ad una tragica conclusione, che già aleggiava sull’intero racconto.
Un vero capolavoro del cinema italiano. Una vera icona del nostro paese e un ritratto autentico, che ancora oggi riesce ad incantare ed affascinare per la sua magia intrinseca.
3) Milano Calibro 9 – Fernando di Leo (1972)
Uno dei noir più belli del nostro cinema. Un cult di genere, che porta sullo schermo una città corrotta, divisa in chi sa sopravvivere e in chi invece è destinato a morire. Nell’opera di Fernando di Leo, non esiste alcuna divisione tra bene e male, tutto quanto viene costruito sul mero interesse personale e sull’inganno. Ogni personaggio infatti, per un motivo o per un altro, insegue il proprio obiettivo a discapito di qualsiasi cosa. Volti avvinghiati da un’apatia esistenziale, alimentata da una società corrotta e violenta.
Una situazione di tensione e di malessere, che da modo alla storia di svilupparsi, attraverso espedienti narrativi interessanti e mai banali. Un lavoro da un ritmo incalzante e ben congegnato, che riesce a rendere ancora più potente ed ammaliante la sceneggiatura, firmata dallo stesso regista.
Mario Adorf e Gastone Moschin, volti principi di quest’opera forniscono una grande prova della loro abilità , conferendo risalto e carisma ai loro personaggi. Barbara Bouchet, altro nome importante della produzione, oltre ad essere il simbolo di una delle sequenze più note e virtuosistiche dell’interno film, incarna anche la femme fatale della situazione. Una sensuale ed affascinante donna del mondo del crimine, perno di svolta per svariate situazioni all’interno di Milano Calibro 9.
Un noir che non sembra essere invecchiato con gli anni e che ha puntato tutto sulla costruzione degli intrecci e della tensione, per dare vita ad uno dei finali più sorprendenti di quegli anni.
4) Non si sevizia un paperino – Lucio Fulci (1972)
Uno spaccato di vita bucolica, di una realtà , ormai andata perduta con il tempo, caratterizzata dal pregiudizio e dall’ignoranza. Un’opera in grado di stupire per il suo modo di raccontare. in maniera limpida e scevra di banalità , una storia segnata dalla superstizione e dall’efferatezza. Un mondo, quello raccontato all’interno film, ancora arcaico e legato ai suoi miti, ma circondato da una modernità , sempre più incalzante e predominate.
Lucio Fulcio con questo suo lavoro realizza un giallo all’italiana sorprendente, in grado di criticare con estrema ferocia, non solo la società dell’epoca, ma anche tutte quelle figure ritenute al di sopra di qualsiasi giudizio, che la caratterizzavano.
Il personaggio che da il proprio nome a quest’opera, Umberto D, è un uomo come tanti. Un volto anonimo, che si muove silenzioso attraverso una società , che ormai sembra averlo dimenticato del tutto. Un povero pensionato, costretto dalla stessa società che ha servito per anni, a vivere alle soglia della povertà con il suo fedele ed inseparabile cane.
Uno spettro indesiderato, costretto a retrocedere d’innanzi al moderno, sempre più schiacciato e martoriato da un’esistenza beffarda ed ingiusta. Un capolavoro del Neorealismo, che colpisce in faccia lo spettatore, attraverso una spietata e malinconica rappresentazione della vita.
Un ritratto di un mondo sempre più capitalista e corrotto, che dimentica l’umano, per favorire i propri interessi, sempre più frivoli e secondari. Un’opera capace di sconvolgere lo spettatore attraverso sequenze struggenti, dalla forte carica emotiva, che vanno ad imprimersi in maniera indelebile sulla retina. Uno dei lavori più importanti e riusciti di Vittorio de Sica, che non è altro che un grande omaggio alla figura di suo padre e di tutto ciò che ha rappresentato per lui.
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