Come ogni anno la nostra redazione si è riunita per provare a decretare quali siano stati i migliori film usciti nel 2018 in Italia.
E’ nostra consuetudine stilare due liste di film: una che proponga i migliori film usciti in Italia ed un’altra sui migliori film prodotti in tutto il mondo nell’anno prescelto.
Dato che la scorsa primavera pubblicammo la Lista dei Migliori Film prodotti nel 2017, alcuni dei quali giunsero nelle sale italiane con qualche mese di ritardo, può darsi che queste due liste condividano qualche titolo.
Come può darsi che per volontà di presentarvi qualcosa di nuovo alcuni dei migliori film presenti nella scorsa lista siano stati totalmente tagliati dalla seguente.
Tutto ciò potrebbe mettere in luce una certa contraddittorietà, ma la verità è che per noi, così come speriamo anche per voi, le liste di film rappresentano prevalentemente un divertissement, una scusa per discutere del valore delle opere prese in analisi, non una vera sentenza o giudizio che nessuno di noi si sente veramente all’altezza di emettere.
Quindi godetevi questa lista che speriamo vi regali alcuni interessanti spunti di discussione e di visione.
15. Lazzaro Felice, di Alice Rohrwacher (2018)
Alice Rohrwacher continua a realizzare film seguendo una sua idea di cinema “personale” e fuori dalle solite correnti proposte dal nostro paese, come una vera autrice.
Così ci regala questo Lazzaro felice, una favola magica e realistica ambientata nell’Italia rurale, in un villaggio fatiscente dove il tempo sembra essersi fermato alla mezzadria. Gli abitanti sono dei mezzadri sfruttati con l’inganno da una magnate del tabacco, la Marchesa Alfonsina de Luna (Braschi).
Tra la famiglia di contadini vi è Lazzaro (splendido Adriano Tardioli) un ragazzo ingenuamente buono, sempre disposto ad aiutare il prossimo, sfruttato a sua volta dai compaesani, poco inclini alla comprensione verso l’animo immacolato e stralunato del protagonista.
Una volta rivelato il “grande inganno”i contadini verranno trasferiti in città, così i paesaggi caldi e solari della campagna lasciano il posto a quelli più grigi e decadenti di un ambiente urbano contemporaneo, dove la prigionia della mezzadria si sostituirà a quella dei moderni emarginati la cui unica salvezza è nella speranza di un ritorno alla terra e alla natura. S
olo Lazzaro rimarrà tale, puro e immutabile. Per alcuni, è un fantasma, per altri, un santo e un portafortuna. Un film originale e coinvolgente, girato con armonia e abilità dalla Rohrwacher che in due ore riesce a emozionarci, a farci riflettere e, a tratti, anche a farci sorridere.
14. Mektoub, My Love – Canto Uno, di Abdellatif Kechiche (2017)
Abbandonare il caos metropolitano di Parigi per tornare nella propria Sète, cittadina benedetta dalla calda brezza del mare e situata nella costa meridionale della Francia.
Immerso nella calura di un’estate degli anni Novanta, Mektoub, My Love – Canto Uno si presenta come una rievocazione nostalgica che trasmuta in inno – sincero, profondo e vivo – alla gioventù, alla sua spensieratezza e al suo essere sconclusionata.
Apparentemente concentrato sulla banale monotonia delle giornate di Amin, il film si trasforma in una pellicola sull’esistenza, sulla vita e sul destino (come suggerito anche dal mektoub del titolo, il quale è traducibile con il sostantivo italiano ‘destino’): con il passare delle ore, infatti, sfuma la centralità del giovane protagonista, spettatore passivo dell’intera vicenda, un occhio che osserva e registra, che immagazzina e che ricorda.
Fotografia di una giovinezza fatta di amore, liti e divertimento, Abdellatif Kechiche – e, con lui, una macchina da presa instancabile e insaziabile – è un racconto dei sensi che, ambientato nella calma bellezza dell’ambiente bucolico, segue le vite estive di un gruppo di francesi di origine tunisina, vite che, intersecandosi per un inspiegabile coincidenza del destino, si declinano e si sviluppano attraverso l’alcol servito nei bar e le fragorose risate che interrompono la quiete della spiaggia, il profumo di ristoranti arabeggianti e la tranquillità della cittadina.
13. Ready Player One, di Steven Spielberg (2018)
Spielberg piazza il doppio colpo nel 2018 e dopo The Post arriva il meraviglioso e sognante Ready Player One.
Spielberg sfrutta la propria innata capacità di calarsi a pieno nei trend e parlare al cuore degli spettatori, in questo caso con un eccitante viaggio nella cultura pop. In Ready Player One si rintracciano omaggi ai totem più classici, ma anche citazioni molto nerd che in pochi gamers riusciranno a capire.
La storia non è ricca di chissà quali colpi di scena, ma compensa con le immagini e con una CGI davvero gradevole. Così come le tematiche: si accenna ad un coacervo di idee circa la realtà virtuale ed il suo impatto col mondo reale, ma lo si semplifica notevolmente, ad uso avventuroso, fino a dare nel finale una soluzione forse scarabocchiata.
Come al solito Spielberg fa le cose in grande e se la moda del momento è il citazionismo, lui cita con stile ed abbondanza, creando l’ennesima avventura ad occhi aperti.
I cani di plastilina di Wes Anderson confermano la grande versatilità del regista, che mette sempre un’abbondante cifra stilistica in ogni sua opera, senza paura di diventare stucchevole tanta è la perizia con cui gira, più volte in grado di passare egregiamente da una tecnica narrativa all’altra senza calare minimamente in qualità. I cani di plastilina di Wes Anderson sono anche il feticcio degli eccessi e della sregolatezza di una società consumista, abulica e indottrinata. I cani diventano rifiuti alla stregua della normale spazzatura. Wes Anderson professa il rischio di deriva verso una società dove l’uomo ormai involutosi culturalmente non è in grado di reagire ad un sopruso politico. Il riscatto arriverà principalmente dai cani, assoluti protagonisti. Ma L’isola dei Cani oltre al suo background sociale e culturale è anche una storia di amicizia dolcissima, un’avventura avvincente e divertente, sia per la grafica dell’animazione in stop motion, sia per l’ironia di cui sono intrisi i dialoghi e infine per le divertenti trovate di regia, come quella di esplicitare i termini del doppiaggio del giapponese e dei latrati, le due lingue del film. La banda dei cani guidata da Chief si muove attraverso la trama come i personaggi di un videogioco all’interno dei vari livelli. Chief ed i suoi hanno più stile di qualsiasi altra banda di supereroi del cinema. Leggete la recensione della Scimmia in questo articolo!
11. L’uomo che uccise Don Chisciotte, di Terry Gilliam (2018)
Gli sforzi che hanno portato alla lavorazione di The Man who killed Don Quixote sono ormai noti a tutti. Un film sentito e voluto ad ogni costo da Terry Gilliam, che dopo trent’anni è riuscito a portarlo a termine. L’amore sincero, e testarda, di Gilliam si percepisce fin nel profondo. Tanto da costituire una pecca per la resa finale del film. The Man who killed Don Quixote risulta, purtroppo, più un capriccio del regista che un film studiato. Risultando essere eccessivamente istintivo e passionale. Ma come farne un difetto vero e proprio? Infondo ad un regista assolutamente autoriale e istrionico come Gilliam lo si può far passare. The Man who Killed Don Quixote è un film completamente assurdo, surreale e sopra le righe; caratteristiche che contraddistinguono la filmografia di Gilliam. Sin dal prendere le mosse da una storia che riflette su una critica sul mondo del cinema, e dell’arte. Adam Driver interpreta un regista ormai cinico e disilluso, che nel deserto spagnolo ritrova sè stesso. Tornando sui suoi passi, ad un passato che lo aveva visto come giovane studente appassionato. Ritrova così i suoi vecchi compagni, con i quali aveva girato il suo “The Man who killed Don Quixote”. Scoprendo che il suo addio ha condotto alla follia alcuni, e alla rovina altri. La carica di simbolismi e l’autoironia, che contraddistingue l’opera di Gilliam, ne fanno uno dei film migliori dell’anno. Merito anche della marca autoriale del regista, che continua a riscuotere grande apprezzamento.
10. Spider-Man – Un nuovo universo, di Bob Persichetti, Peter Ramsey, Rodney Rothman (2018)
In una New York espressionista che sprigiona l’anima del fumetto troviamo Miles Morales, tutti i suoi dubbi adolescenziali e una pietra miliare dell’animazione. La base la conoscete tutti: adolescente, liceo, ragno radioattivo, morso, poteri. Qui però di uomini ragno ce ne sono tanti, tutti provenienti da altri universi e tutti pronti a combattere per tornare a casa. Da qui inizia la vera particolarità del film, poiché ogni Spider ha il suo stile di animazione, riferito all’universo di provenienza e questa è solo la punta della genialità visiva e creativa che pervade Spider-Man – Un nuovo universo. Dopo Raimi non ci siamo più emozionati come con questo film a vedere il ragno sfrecciare per Manhattan attraverso e i motivi sono molto validi: ottima regia, un montaggio per riportare temi ricorrenti e farci sentire il fumetto più vivo che mai, una storia tra le migliori in assoluto dei cinecomics, ma soprattutto un’esperienza visiva strabiliante e mai vista prima. Scegliendo uno stile psichedelico e vivace gli animatori hanno creato un film utilizzando nuove tecniche di animazione convincenti e funzionali; non è solo un cartone animato, ma quello che deve essere il futuro dei cinecomics. Un film che ci auguriamo possa dare un’eredità da seguire alla cultura pop, e che distrugge tutti i preconcetti usati per raccontare i supereroi e anche dell’animazione mainstream. La Pixar non ha questa audacia visiva e idee così rivoluzionarie ormai da decenni, o forse non le ha mai avute. Spider-Man – Un nuovo universo offre un’esperienza visiva dinamica e rivoluzionaria. La Marvel dovrebbe affidarsi totalmente a Phil Lord e Chris Miller, perché sanno esattamente cosa fare per raccontare i fumetti al cinema.
Tra i film migliori del 2018 c’è senza ombra di dubbio Cold War del regista polacco Pawel Pawlikowsky. Ambientato negli anni più duri della Guerra Fredda, quando la Polonia era saldamente al di là della “cortina di ferro”, Cold War vuole raccontare la storia di due musicisti che, innamorandosi, sfidano le imposizioni politiche del tempo. Girato in uno splendido bianco e nero ed in 4:3 sembra essere un film d’altri tempi, eppure indiscutibilmente contemporaneo ed emozionante. Il divario tra Est ed Ovest è congenialmente esplicitato anche attraverso la musica: popolare da una parte, jazz dall’altra. Il protagonista, Wiktor Warski è infatti un ottimo musicista, che riuscito ad affermarsi nella scena parigina dopo la sua fuga dalla Polonia, non riuscirà a vivere più senza la sua amata Zula, reticente a lasciare il suo paese. Il film raggiunge vette altissime, coronate da semplici ma efficaci movimenti di camera, e non scende mai sotto l’ottimo livello che raggiunge. La fotografia non è da meno, in bilico tra il rigore bianco delle terre polacche (che rimanda inevitabilmente ai campi lunghi di Kieslowski) e il calore della Parigi degli anni ’50. Cold War è anche ricco di molte citazioni visive, sempre – ad esaltare la strenua coerenza della sceneggiatura – diviso tra i due blocchi in guerra. Ci sono indistintamente richiami a film di Bertolucci e Godard come ad alcuni di Tarkovskij nella scena finale, tutta giocata sul silenzio. Cold War è attualmente candidato al Premio Oscar per miglior film straniero e ha vinto il Prix de la Mise en Scene a Cannes 2018.
8. Il Sacrificio di un Cervo Sacro, di Yorgos Lanthimos (2017)
The Killing of a Sacred Deer, horror psicologico del genio greco Lanthimos è uno dei migliori film usciti in sala nel 2018. Lanthimos sceglie ancora come protagonista Colin Farrel e continua il suo lavoro con lo sceneggiatore Filippou (che lo segue ormai dai tempi di Kynodontas). Dopo che The Lobster si era guadagnato il premio delle giuria a Cannes, Lanthimos e Filippou vincono il premio per la miglior sceneggiatura, da sempre un fiore all’occhiello dei film del duo greco. The Killing of a Sacred Deer è un film meno accessibile del predecessore The Lobster. Lanthimos continua la sua cruda e agonizzante indagine sulla condizione dell’uomo per mezzo del mito greco, esplorando questa volta affetti, responsabilità e senso di sopravvivenza. Come sempre le criptiche e surreali vicende raccontate sono metafora di un qualcosa di ben più complesso e sfaccettato. Sullo schermo vanno volti noti come Colin Farrel, Nicole Kidman (in grande spolvero) e Raffey Cassidy ma la vera star è lo sconosciuto Barry Keoghan, che interpreta il problematico adolescente protagonista, il quale intesse un malsano rapporto col chirurgo Steve Murphy (Farrell), trascinando in un macabro gioco mortale tutta la famiglia del dottore. Come di consueto nei film di Lanthimos la colonna sonora detta il ritmo di ansia e paura in modo magistrale, arrivando a comunicare quasi più delle immagini, cesellate dalla solita splendida fotografia di Bakatakis, altro collaboratore affezionato di Lanthimos. Leggete la recensione della Scimmia in questo articolo!
7. Dogman, di Matteo Garrone (2018)
Poteva essere un film totalmente sbagliato, fazioso, ruffiano o anche truce e violento. Invece Dogman è l’ennesima conferma di un cinema italiano fortemente radicato nella nostra società, che fa tornare l’Italia protagonista a Cannes. Marcello Fonte è Er Canaro perfetto: è esattamente quello che vedete sullo schermo e questo gli permette di recitare con una totale spontaneità. La fotografia di Garrone di una Roma ignorata e dimenticata va nell’album dei ricordi a fianco della trilogia di Caligari, dei più recenti Lo Chiamavano Jeeg-Robot e Suburra e molti altri. In un epoca in cui da oltreoceano arriva sempre più cinema di intrattenimento, in Italia tengono ancora duro film come Dogman. Il film di Garrone ci riporta all’analisi dei rapporti tra uomo e società, si sofferma sulla facilità con cui si scambiano i cattivi per gli oppressi e su come a volte, anzi più spesso di quanto si creda, non esista una via facile ed una difficile, ma semplicemente una via, evidentemente sporca e tortuosa, e soltanto quella. Senza bisogno di parole, l’ultima scena di Dogman è un trionfo di comunicazione ed empatia, che vale mezzo cinema dell’ultimo anno. Leggete la recensione della Scimmia in questo articolo!
6. First Reformed, di Paul Schrader (2017)
First Reformed vede Ethan Hawke interpretare brillantemente un ministro protestante alcolizzato (Toller) in profonda crisi spirituale e psicologica. Un film coinvolgente e stupendamente girato, che va a coronare la carriere di un artista fondamentale per il cinema americano, Paul Schrader. Un uomo di Dio incontra la sua personale prova spirituale, andando ad affrontare una propria apocalissi spirituale. Il film ricorda capolavori come Luci d’inverno di Bergman, non solo per il tema, e non a caso può ricordare delle scene di Taxi Driver, di cui Schrader scrisse la sceneggiatura. Emblematica in questo senso la scena in cui il prete scioglie nel suo whisky del Pepto-Bismol rosa shocking, riportandoci alla mente l’Alka-Selzer che sprizza davanti al volto di Travis in Taxi Driver. In tutto questo il prete si occupa da bravo predicatore dei suoi cristiani, ma quanti pensieri folli e impuri si aggirano nella mente di chi frequenta la sua chiesa. Sarà la parrocchiana, Mary, interpretata da Amanda Seyfried, a portarlo a conoscere il partner depresso; un attivista ambientale in crisi per il fatto che Maria è incinta. Lo ossessiona il pensiero di portare nel mondo che l’umanità ha arrogantemente distrutto una nuova vita. Toller viene risvegliato da un suo torpore spirituale grazie ai pensieri del uomo, soprattutto quando si rende conto che un grande inquinatore sta dando soldi alla sua chiesa. Con delle composizioni senza fronzoli e una fotografia quasi monocromatica, il film ci delizia con i suoi dialoghi, dei primi piani angoscianti ed espressivi di grande forza emotiva e cinematografica. In tutto questo sofferto realismo una scena trascende ogni logica e ci trasporta nella magia del cinema. Imperdibile.
5. Un Affare di Famiglia, di Kore’eda Hirokazu (2018)
Vincitore della Palma d’oro Shoplifters (titolo originale) è un film sottile e misterioso, in grado di costruire un ottimo finale gestendo le informazioni in maniera eccelsa. Il film si interroga soprattutto su quello che significhi essere una famiglia, tema caro a Kore’eda che ha dimostrato di essere un vero maestro moderno nel raccontare questi drammi famigliari. I suoi precedenti, come Nobody Knows (2004) e Like Father Like Son (2013), costituivano un’ottima prova, con questo film lo conferma. Tutto quello che scopriamo di questa famiglia ci arriva con il contagocce e con dolcezza, sorprendendoci delicatamente fino a giungere ad un finale rivelatore e degno di un grandissimo dramma. Raccontandoci di una famiglia giapponese di delinquenti, costretti a rubare per vivere e che salvano una bambina dal suo triste destino, Kore’eda ci regala un film profondo e sensibile.Shoplifters racconta di personelegate apparentemente dalla convenienza della famiglia, ma anche da un grande amore. Un film intelligente, tanto appagante quanto emotivamente devastante.
Film che ha diviso il mondo del cinema per tematiche non intrinseche all’opera, Roma è sicuramente uno dei protagonisti di questo 2018. E’ il film di Netflix. Ed è uno di quei film che un grande regista sforna una volta nella carriera ed uno di quei film che ne escono al massimo due o tre in un anno. Film di grossa portata. Un film evento, potente e vivo. Cuaròn intreccia la storia di due donne prigioniere della propria stessa meravigliosa e crudele vita. Senza ricorrere ad una noiosa retorica che poteva minacciare lo spessore del film ad ogni svolta della sceneggiatura, Roma trascina con veemenza lo spettatore in una Città del Messico borghese e al tempo stesso molto umile, scioccando con alcune scene dall’alto contenuto emotivo. Se i Figli degli Uomini era più contenuto che forma e Gravity più forma che contenuto, Roma forse è l’opera in cui Cuaròn trova il miglior connubio tra le due parti. Infonde nella storia il forte ingrediente autobiografico fondamentale per la realizzazione e riuscita dell’opera. Leggete la recensione della Scimmia in questo articolo!
3. Visages, Villages, di JR, Agnès Varda (2017)
Una delle più belle visioni del 2018 ce la regala questo curioso e incatevole documentario on the road in cui l’instancabile e anziana regista Agnès Varda accompagnata dal fotografo e street artist JR percorre la Francia rurale alla ricerca di volti e villaggi ai quali scattare fotografie, raccontandone le storie, i ricordi e i pensieri con lo scopo di ridare un “volto” a luoghi e siti abbandonati. Viaggiano nel furgone di JR, allestito per l’occasione come fosse una macchina fotografica gigante, al cui interno si trova una cabina utilizzata per fotografare i volti di chiunque vi capiti all’interno, per poi ricavarne delle gigantografie con le quali tappezzano pareti, muri e ogni superficie libera che gli si para davanti. Inevitabilmente, il film è un viaggio nella memoria dell’anziana regista che rivisita e ricorda i luoghi e le persone che ha fotografato, e in alcune delle sequenze più belle ricorda film e registi dal suo passato. Ma Visage, villages ci offre molto di più, mentre contempliamo i volti e i luoghi attraversati dai due viaggiatori veniamo invitati a riflettere su varie tematiche come il passaggio del tempo, la natura della memoria, la mutabilità dell’amicizia e la stabilità duratura dell’arte, la dignità del lavoro e il destino della classe operaia europea. Sotto la spensieratezza e il buonumore così esplicite nel film, è presente un sottofondo inequivocabilmente malinconico. I luoghi, così come i ritratti che vediamo scorrere nello schermo con il tempo si sgretoleranno, tornando ad essere abbandonati, le facce e le storie svaniranno con il passare degli anni e solo il potere commemorativo delle immagini può ridar loro vita e rianimarli.
2. The Other Side of the Wind, di Orson Welles (2018)
L’uscita su Netflix di The Other side of the Wind è indubbiamente l’evento cinematografico del 2018. Realizzato postumo, l’ultimo film mai portato a termine di Orson Welles vede la luce e folgora lo spettatore. Il risultato, seppure non possa essere considerato totalmente wellessiano, dato che il regista non ha potuto lavorare al montaggio, è qualcosa di completamente incredibile considerando i tempi di produzione. Le ultime 24 ore di vita del regista Jake Hannaford possono essere considerate simbolicamente il rapporto di Welles con l’industria del cinema e i suoi produttori. Il cadavere di Hannaford, che si può vedere nella prima scena, è l’emblema della morte artistica di Welles. Portato alla fine dai suoi produttori, che non gli hanno permesso di realizzare il suo ultimo film. In tal modo The Other side of the wind diventa un raffinatissimo gioco di critica politica e metafora dello sfrenato capitalismo hollywoodiano.
Hannaford è alle prese con il suo ultimo film, impossibilitato alla realizzazione dalla fuga del protagonista. L’evento è accompagnato da una troupe di documentaristi che seguono l’ultima giornata di vita di Hannaford. Le immagini delle riprese dei documentaristi sono caratterizzati dall’uso di una fotografia in bianco e nero contrapposta a quella a colori della realtà diegetica. Si vengono a creare così tre livelli visivi, che si sovrappongono e si alternano, creando altrettanti livelli dello sguardo registico. Aspetto decisamente più interessante di The Other side of the wind, nel quale risiede il brillante sperimentalismo welleseniano, capace di precedere con intelligenza il cinema contemporaneo.
L’eleganza al cinema porta il nome di Paul Thomas Anderson. Reynolds Woodcock (il solito impeccabile Daniel Day-Lewis) è il sarto più illustre del regno e confeziona vestiti per tutta la nobiltà e le celebrità inglesi nella Londra del secondo dopo guerra. Reynolds è anche uno scapolo incallito, a tratti apparentemente disturbato, legato alla sorella da un rapporto sanguigno e silenzioso. A scombinare le convinzioni e le abitudini di Reynolds arriva Alma, una splendida Vicky Krieps (che quest’anno abbiamo già apprezzato nel coraggioso film The Young Karl Marx), che irrompe nella vita di Reynolds ergendosi gradualmente a sua musa ed amante. I punti delle cuciture cui si ancora la vita del sarto vengono scuciti uno ad uno da Alma fino alla scena dei funghi che entra di diritto nella storia del cinema per il pathos che suscita e la straordinaria regia. PTA firma quello che forse non è il suo miglior film, ma sufficiente ad essere il migliore dell’anno. Leggete la recensione della Scimmia in questo articolo!