La voce può essere considerata un profondo strumento di attribuzione identitaria.
I suoni diventano manifesto delle nostre emozioni e sensazioni e la voce diviene un mezzo tramite il quale corpo entra in rapporto con un contesto sociale e culturale.Marleau-Ponty definiva l’atto del parlare e la voce come il “canto corporale del mondo”, inteso come luogo di espressione attraverso il quale l’individuo rappresenta la propria interiorità. Per fare ciò la voce, così come il suono, necessita di uno spazio fisico, da occupare e all’interno del quale muoversi. La voce è la proiezione del corpo, della capacità di occupare quello spazio e di governalo e per chi ascolta è importante conoscere la sorgente di quella voce.
Nel cinema la voce diventa un medium di valutazione e interpretazione dell’identità del personaggio parlante. Questo processo assume maggior valore nel caso della cosiddetta voce acusmatica, caratterizzata da una provenienza sconosciuta.
Negli anni ‘20 del XX° secolo, la Warern Bros cominciò a sperimentare le possibilità della sincronizzazione sonora cinematografica, riuscendo a portare in sala nel 1927 Il cantante di Jazz.
La colonna sonora comprendeva degli spezzoni di dialogo reinterpretati in playback dagli attori. A partire da quel momento si manifestò una tendenza hollywoodiana allo sviluppo e la produzione di film totalmente parlati. Già dal 1929 le locandine filmiche presentavano la scritta “100% talkies” volendo sottolineare questo cambiamento epocale in ambito cinematografico. Come una componente sovversiva dell’immagine, ma che vi andava a braccetto, arrivò la voce. La voce nel cinema fu in grado di rimettere in discussione il concetto stesso di immagine, con la quale si sovrapponeva e allo stesso tempo si scontrava. Ne metteva in evidenza la natura artificiale ed illusoria, ponendo a confronto il proprio spazio fisico con quello occupato dall’immagine.Il suono nella sua essenza è però privo di corpo e quindi non occupa quasi mai uno spazio tangibile nel cinema.
L’inquadratura sonora nasce da un lavoro di montaggio e missaggio con l’immagine, grazie al quale si possono individuare le coordinate spaziali. Il suono, e quindi la voce nel cinema, è così classificata soltanto dal momento in cui viene legata alla sua sorgente. Da ciò sembrerebbe porsi la sudditanza del suono nei confronti dell’immagine. Il riconoscimento della voce è legato alla visualizzazione del corpo da cui essa è emanata. Ad esempio inquadrando un personaggio che parla e sentendo le sue parole, ci troviamo ad “osservare” un suono presente incampo. Automaticamente si crea un rapporto di causalità tra suono e immagine.
Ma esiste un altro luogo in cui il suono e la voce nel cinema nascono e si muovono: il fuori campo.
Il regno del suono, il vero luogo abitato e cui appartiene la componente sonora del film. Il fuori campo, si distingue a sua volta di due tipologie diverse di suoni: i suoni “off”, che appartengono all’universo diegetico del film, ma la cui fonte non viene inquadrata, e i suoni “over”, emanati da uno spazio altro, escluso non solo dall’inquadratura ma anche dal mondo appartenente al film; un luogo extradiegetico. Proprio un voice over diventa interessante e particolare per essere il luogo della narrazione esterna, extradiegetica; come un commentatore onnisciente e onnipresente.
Queste tre aree che formano la dimensione sonora del film, possono essere intercambiabili. Sono delle aree fluide e dinamiche in cui ci si può muovere con velocità, attraversando i vari tipi di voce. In un attimo si può così passare da “in” a “off”, da fuori campo a in campo, ma anche un personaggio esterno, che sia un narratore extradiegetico può entrare facilmente all’interno del mondo diegetico del film.
Ciò nonostante, rimane il fuori campo il luogo per eccellenza della componente sonora di un film. Un luogo magico e capace di rendere immediatamente esplicita l’artificiosità del film. Un luogo attivo, che mette in discussione le potenzialità dell’immagine definendo con estrema accuratezza i suoi limiti. Perché l’immagine contratta nei limiti dello schermo e dell’inquadratura non riesce a rendere sempre l’idea di tutto il mondo filmico messo in scena. È soprattutto il suono, provenendo dallo spazio fuori campo, a rendere nota l’ampiezza ulteriore del mondo diegetico, proiettato oltre i bordi dello schermo il mondo. Il suono, e la voce nel cinema in particolar modo, esercitano un notevole potere e influsso su chi guarda. Una forza data soprattutto dalla capacità delle voci di fluttuare tra la zona dell’ “in”, quella dell’ “off” e dell’ “over”, tra diegesi ed extradiegesi.
Il suono e la voce nel cinema sono a volte un’esperienza incompleta, la cui provenienza e natura ci viene celata, insinuando nella mente degli spettatori dubbi riguardo la sua origine e la sua entità. Il compositore e regista Michel Chion li definisce in questo caso “acousmètre”, definendo qualcosa che è possibile sentire, presente e reale all’interno della realtà filmica, ma è nascosta alla vista nella scena.
Nel prossimo articolo approfondiremo proprio il fascino della voce fuori campo, sempre su Lascimmiapensa.com