Bitches Brew è il seguito ideale di In a Silent Way, esce l’anno successivo ed ospita praticamente gli stessi musicisti. Solo che questo album è quasi l’esatto contrario del suo predecessore, a livello di atmosfera: tra i due c’è la stessa differenza che c’è tra il ghiaccio ed il fuoco. In a Silent Way è calmo, rilassato, composto, insinuante. Bitches Brew è invece caldo, passionale, intenso, sensuale. Complice, un nuovo elemento che si aggiunge al quadro già complesso che Miles Davis mette insieme: questo nuovo elemento è il funk. L’influenza contemporanea della musica nera, di gruppi come Sly and the Family Stone, o dei Parliament-Funkadelic, è palese ed importante. Il trombettista ha ormai definitivamente abbandonato i lidi del jazz classico, dimenticato del tutto le proprie origini nel bop degli anni ’40, frettoloso di spingersi sempre più in avanti, in direzioni allora inesplorate.
Migliore canzone: Miles Runs the Voodoo Down
8. Jack Johnson (1971)
Arrivati a questo punto, vi sarò ormai chiaro come la discografia di Miles Davis sia una continua evoluzione, senza freni, nella quale il musicista si getta vorace su di un genere dopo l’altro. Non ultimo, in Jack Johnson egli affronta l’hard rock, genere di punta dell’epoca e, cosa importante, genere segnatamente “bianco”. Ma a Miles non importa di mischiare qualunque stile, pur di esprimere ciò che vuole. Jack Johnson, colonna sonora di un documentario sull’omonimo pugile peso massimo, non è un disco jazz. Tuttalpiù, può essere considerato un disco prog rock a forti tinte, appunto, hard rock. Il jazz rock non è una novità per l’epoca, ma il modo in cui lo fa Miles in questo disco si rivela, ancora una volta, estremamente influente.
Giunti a questo punto, la musica di Miles incorpora tranquillamente elementi fusion, funk, rock, jazz, di tutti i tipi. On the Corner è forse il suo album più soul, che mostra l’influenza di artisti contemporanei come Curtis Mayfield, e si abbandona alla costruzione di quella che potrebbe tranquillamente essere la colonna sonora di un film blaxploitation. Un disco, rispetto al precedente Jack Johnson, nero fino al midollo, ma che presta occasionalmente il fianco a curiosi esperimenti psichedelici, con tanto di sitar e tabla.
Migliore canzone: Black Satin
10. Tutu (1986)
Uno degli ultimi passaggi nella consecuzione di stili affrontati da Miles nella sua carriera non poteva essere che questo: il pop. Perché di jazz pop, con Tutu, si può legittimamente parlare. Pieno di influenze synthpop e futurefunk che lo accomunano alla produzione contemporanea del collega Herbie Hancock (Rockit, per intenderci), Tutu accoglie echi, bassi in slap, sintetizzatori, batterie elettroniche, divagazioni digitali, conservando lo stile funk degli anni ’70 ma adattandolo al decennio presente. In questo momento, Miles Davis è ormai ampiamente criticato da tutti gli ambienti jazz tradizionalisti, e specialmente dalla nuova generazione rappresentata da Wynton Marsalis, il quale si fa apertamente beffa di lui in pubblico.
Eppure, col senno di poi, non rimane dubbio: certo, da una parte Miles si sarà “svenduto”, adottando di volta in volta sonorità “commerciali” per avvicinarsi ad un pubblico giovane; dall’altro, il trombettista ha sempre saputo mantenere il jazz “vivo”, contaminandolo senza sosta e mettendo continuamente alla prova la resistenza dei confini del genere. Lo stesso che Miles continuerà a fare fino alla sua morte, lasciandoci l’eredità di una delle figure più rivoluzionarie non solo della storia del jazz, ma della storia della musica. Una figura che ha sempre saputo e voluto guardare avanti, spingersi oltre, reinventarsi, conferire dinamismo ed elasticità alla propria arte.