Non è facile scegliere chi possa rientrare nella lista dei migliori chitarristi di sempre, ma siamo più che certi che Peter Green rientri tra questi. Analizziamo In The Skies, un album di ritorno in più direzioni.
Peter Green: mai sentito questo nome? Negli anni in cui Eric Clapton militava per gli Yardbirds, le corde della sua chitarra si spezzavano con una frequenza costante nel bel mezzo delle esibizioni live. L’eleganza con cui le sostituiva con le nuove, accompagnato dal lento battito di mani del pubblico, gli valsero l’epiteto di SlowHand (mano lenta, letteralmente). David Bowie era invece noto con il soprannome di Duca Bianco; il Thin White Dukefu infatti presentato da lui stesso come il suo alter ego e faceva riferimento ad un nobile che vestiva in maniera semplice ma molto ricercata, prediligendo il colore bianco.
Perché questa premessa?
Per dire che Peter Green era conosciuto come The Green God: un appellativo che, a differenza di quelli citati, non necessita di essere spiegato. Fondatore degli storici Fleetwood Mac, Green ha portato alle estreme conseguenze il concetto blues della chitarra come “seconda voce”. Il suo immenso talento è stato di ispirazione per una lunga generazione di artisti e il suo triste epilogo rappresenta uno dei più grandi “cosa sarebbe successo se?” della storia della musica.
Dunque, ci sembra doveroso dedicare la giusta attenzione che meriterebbe il suoIn The Skies, pubblicato nel 1979 e che vanta la collaborazione di altri due musicisti notevoli, Snowy White (Pink Floyd e Thin Lizzy) e Peter Bardens (Camel). Se il precedente The End of the Game va ascoltato con il cervello, più che con la pancia e con i piedi, per in The Skies vale il discorso opposto: bisogna farsi trasportare, lasciando che la musica fluisca dentro.
C’è qualcosa di molto intrigante nel modo in cui i primi due album da solista di Peter Green rappresentano due capitoli molto diversi nella sua problematica vita. The End of the Game è stato essenzialmente la colonna sonora del suo esaurimento mentale, un album appropriatamente oscuro (e ammaliante) che ha segnato il periodo più fosco della sua carriera.
In the Skies, rilasciato 9 anni dopo, è riflesso di qualcosa di molto più positivo invece.
Registrato dopo otto anni (trascorsi in istituti di salute mentale) lontano dalla scena musicale, In the Skies rappresenta un album di ritorno in più direzioni: non solo alla musica, ma anche ad una sorta di normalità, per Green . E’ un disco pregno di una certa aria di speranza, in termini di promesse musicali e oltre. Uno grido di ottimismo inaspettato dopo gli anni turbolenti che lo hanno preceduto. L’atmosfera (sorprendentemente) vivace del disco è testimoniata al meglio dall’esaltante strumentale Proud Pinto. Sarà perché è il primo pezzo che Green ha composto dopo aver preso in mano una chitarra per la prima volta dopo anni?
È come se questo brano derivasse direttamente dalla gioia di poter finalmente suonare, di far esplodere il vulcano di creatività rimasto inattivo per troppo tempo. Le vicissitudini personali che lo interessavano rendono impossibile utilizzare il concetto di serenità per descrivere il suo sound, ma senza ombra di dubbio la fluida melodia di Green è l’inno di una certa soddisfazione e di un ritrovato (e temporaneo) sollievo. Capire il contesto che circonda una canzone del genere non fa che aumentarne l’impatto emotivo; qualcosa che è vero per gran parte dell’album nel suo insieme.
Durante il periodo in cui In the Skies fu concepito, Green sposò una giovane donna ebrea. Questo evento avrebbe influenzato una buona fetta del materiale dell’album, visto che alcune delle canzoni contenute furono scritte a quattro mani dai due. Parliamo dei testi di tre delle quattro tracce vocali dell’album: In The Skies, Seven Stars e Just for You.
Il mistico Seven Stars è stato ispirato dalle sessioni di lettura della coppia, mentre la magnifica In The Skies è altrettanto spirituale nel suo contenuto lirico ed è accompagnata da una performance vocale particolarmente risonante da parte di Green.
Tuttavia, non tutte le canzoni riflettono la nuova soddisfazione di Green.
A Fool No More si rifà al precedente e più tradizionale blues di Green. E’ un pezzo malinconico, una sorta di antitesi allo straripante ottimismo di Proud Pinto. Il brano è un getto d’acqua fredda, il pizzicotto che ti sveglia da un bel sogno. Un reminder con cui Green ricorda a noi e a sè stesso che certe esperienze non possono essere cancellate. Rinnovata felicità, certo, ma non tutto il malessere può definitivamente cancellato. La versione sonora del mostro di Babadook, per intenderci: il mostro non può essere eliminato, si può solo tenerlo a bada. Il brano testimonia anche come Green sia sempre stato più evocativo nell’esprimere la tristezza, uno stato d’animo che è assente per gran parte dell’album, escluse le due tracce sopra menzionate.
Questo è forse uno dei motivi per cui gran parte di In the Skies, sebbene eccellente, si sente meno al sicuro rispetto ad alcuni dei materiali che lo hanno preceduto.
All’album mancano alcune delle avventure e della creatività che si insinuano nella musica di Green durante l’era dei Then Play On di Fleetwood Mac, così come il suono oscuro e torturato del suo primo album da solista The End of the Game. Tuttavia c’è un certo fascino e una qualità mistica in In the Skies che lo rende un ascolto molto stuzzicante, e oltre a un paio di momenti leggermente più deboli – con il pezzo funky Funky Chunck che è il peggiore trasgressore – l’album riesce a essere sempre pregevole.
Capiamoci, non ha nulla del genio dello strumentale e più primordiale The End Of The Game: In the Skies raggiunge appena le vette delle glorie precedenti di Green, ma arriva molto più vicino di ogni altra cosa che ha prodotto dopo il suo famigerato crollo mentale. L’unico aspetto negativo è l’incertezza su quali canzoni Peter Green sia effettivamente protagonista (sempre a causa delle sue condizioni mentali), ma ciò non toglie nulla alla qualità dei brani.
In The Skies è una testimonianza della longevità del talento grezzo, quello autentico, capace addirittura di sopravvivere alle inquietudini intellettive. Per tutto il tempo, nel cuore del lavoro di Green c’era una tristezza indefinibile. Questo è il motivo per cui forse il suo rifiuto della fama (voleva dare via tutti i suoi soldi ad un certo punto) era inevitabile, con o senza gli effetti debilitanti dell’LSD.