Dopo aver visto gatti persiani lanciati dalla finestra, gatti morti a causa del morso di un serpente a sonagli e gatti che si trasformano in compagni di avventure di pseudo-dittatori immorali e corrotti, la domanda sorge spontanea.
Dopo aver mostrato beagle investiti da automobili sportive ne I Tenenbaum e terrier feriti mortalmente a causa di una freccia in Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore, Wes Anderson decide di redimersi con L’isola dei cani. Il destino dei gatti, però, nel cinema dalle tinte pastello del regista statunitense, non assomiglia a quello dei loro eterni nemici a quattro zampe. Nessuna dimostrazione di affetto, per loro.
Un gatto persiano viene lanciato da una finestra, vittima di chissà quale capriccio umano. Siamo in Grand Budapest Hotel (stasera in tv alle 21.30 su canale 9) e il felino in questione è di appartenenza di Kovacs e, proprio a causa sua –o, meglio, a causa delle parole che quest’ultimo legge: le ultime volontà della defunta Madame D–, è costretto ad “assistere” alla fine di tutte e sette le proprie vite. “Ha appena lanciato il mio gatto fuori dalla finestra?” è tutto quello che il padrone riesce a pronunciare prima che il corpo senza vita dell’animale venga buttato nella spazzatura.
Morto a causa del morso di un serpente a sonagli: con un’apatica nonchalance, mentre accende un sigaro, Eleanor informa il marito Steve della scomparsa del loro gatto ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou. “Dovevi per forza dirlo in questo modo?” chiede il protagonista del lungometraggio. E, se dobbiamo essere sinceri, è quello che ci chiediamo anche noi, non appena la donna smette di parlare, poco prima che lo stesso Steve risponda alla domanda di Ned Plimpton, interessato di sapere la razza dell’animale da compagnia, con un secco “A chi dovrebbe interessare?”.
E poi è la volta del già citato L’isola dei cani, dove i migliori amici dell’uomo trovano, come si diceva precedentemente, la redenzione, dopo essere morti innumerevoli volte per volontà della creatività sanguinolenta di Wes Anderson, e dove i gatti, unici animali posseduti dal sindaco-dittatore Kobayashi e dal resto dei villain del lungometraggio, si trasformano in emblema di malvagità, immoralità e corruzione.
La domanda sorge, quindi, spontanea: ma Wes Anderson odia davvero i gatti?
A quanto pare, no. Eppure non sembrerebbe. Stando a quanto rivelato dal regista durante un’intervista concessa alla giornalista Linda Barnard della rivista canadese Star, infatti, “ogni tanto è interessante inserire nuovi animali all’interno dell’equazione”. Nessun rancore per la proiezione animale dell’indipendenza e della solitudine, dunque.
Non si tratta di una semplice avversione nei confronti dei gatti: all’interno del personale di Anderson, questi non sarebbero più semplici felini, ma si trasformerebbero in simboli aventi un significato ben definito, simboli che si incastrano perfettamente con il resto dell’universo complesso e seducente generato dalla mente del cineasta americano, un macrocosmo dove aleggia costantemente l’invisibile presenza della morte che, sebbene all’apparenza possa sembrar stonare con l’immaginario andersoniano, non risparmia nessuno nei suoi lungometraggi. Nemmeno i gatti.
Sorge, a questo punto, spontanea un’altra domanda: i sentimenti idiosincratici risultano essere troppo banali agli occhi di Wes Anderson?